22 novembre 2004
di Enzo Bianchi
Lezioni “Norberto Bobbio” - Sintesi dell’intervento di Enzo Bianchi
La Stampa, 22 novembre 2004
In questi giorni in cui siamo colpiti dal silenzio assordante che ha investito i media nazionali riguardo alla guerra in atto in Iraq, alla sua perdurante illegalità internazionale, alle sempre più numerose vittime civili, alle oscure prospettive di degenerazione in catastrofe umanitaria, giorni in cui si è fatta più flebile anche la voce che con forza risuonava solo lo scorso anno in tanti ambienti definiti “pacifisti”, non è mero esercizio retorico l’esaminare il cammino compiuto dall’insegnamento dei pontefici degli ultimi cinquant’anni sulla problematica della guerra e della pace.
Non possiamo dimenticare la svolta epocale rappresentata in merito dall’enciclica Pacem in terris, pubblicata nell’aprile 1963. In essa papa Giovanni XXIII, appena due mesi prima di morire, prende radicalmente le distanze dal sistema di deterrenza e sostiene la necessità di un disarmo simultaneo e reciproco e della messa al bando delle armi nucleari, per pervenire a un disarmo integrale anche degli spiriti “in modo che al criterio della pace reggentesi sull’equilibrio degli armamenti si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella reciproca fiducia”. Con l’enciclica il papa giunge a ritenere ormai impraticabile ogni legittimazione, nell’era nucleare, della guerra anche qualora vi fossero le tradizionali motivazioni per considerarla giusta. È quella “coscienza atomica” che Bobbio si attendeva sarebbe sorta come patrimonio dell’umanità: la consapevolezza che la disponibilità di un’arma radicalmente nuova come l’atomica avrebbe sgretolato il supporto giuridico, filosofico e teologico capace di giustificare una qualsiasi guerra. La traduzione letterale del passaggio chiave dell’enciclica recita così: “in questa nostra età, che si gloria della forza atomica, è alieno dalla ragione, pensare che la guerra sia atta a riparare i diritti violati”. Il “papa buono” opera un rifiuto categorico della guerra e di fatto toglie ogni possibilità di legittimare una guerra definendola giusta. Lo colse con lapidaria concisione il teologo Yves Congar, che così commentò: “La stagione della guerra giusta è terminata nella teologia cattolica”. (…)
Con Giovanni Paolo II il quadro teologico conosce da un lato una ripresa e una conferma di alcune acquisizioni e, d’altro lato, una nuova, vigorosa accelerazione. Tutti gli interventi del magistero papale del novecento, da Benedetto XV a Pio XII, sono costantemente citati negli interventi di questo papa che ha vissuto sulla propria pelle la tragica esperienza del secondo conflitto mondiale. È in questa continuità che Giovanni Paolo II cita a più riprese il versetto di Isaia 32,17 “Opus iustitiae, pax” che era già il motto episcopale di Pio XII: “opera della giustizia sarà la pace”, versetto con il quale il papa afferma con forza che la pace equivale allo stabilire nel mondo un ordine fondato sulla giustizia e il pieno rispetto dei diritti umani. E proprio perché la pace può nascere solo dalla giustizia, Giovanni Paolo II arriverà a dire che “ci sono dei casi in cui la lotta armata è un male inevitabile a cui, in circostanze tragiche, non possono sottrarsi neanche i cristiani “ (Vienna, 22 giugno 1983). Oppure nel messaggio per la giornata della pace 1984: “è il senso della realtà al servizio fondamentale della giustizia che impone il mantenimento del principio della legittima difesa”. È in questa prospettiva che la Santa Sede ha mantenuto la dottrina della guerra giusta nel Catechismo della Chiesa Cattolica voluto da Giovanni Paolo II nel 1992 e che negli anni ’80 ha declinato questa teoria della guerra giusta come dovere e “diritto di ingerenza” per disarmare quelli che non rispettano la giustizia e i diritti di un popolo. Anche il Messaggio per la Giornata della pace del 1° gennaio 2000 è legato al concetto di guerra giusta: “quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto i colpi di un ingiusto oppressore, è legittimo e perfino doveroso impegnarsi in iniziative concrete volte a disarmare l’aggressore. Queste, però, devono essere: a) circoscritte nel tempo; b) precise negli obiettivi; c) condotte nel pieno rispetto del diritto internazionale; d) garantite da autorità sovranazionali riconosciute; e) mai lasciate alla mera logica delle armi”.
Siamo in piena continuità con il magistero dei papi del Novecento. Eppure, negli stessi anni si comincia a intravedere nella riflessione di Giovanni Paolo II un percorso diverso, maggiormente in sintonia con le intuizioni della Pacem in Terris. Nel 1991, in occasione della prima guerra nel Golfo, il papa prende posizione contro la legittimazione religiosa della guerra dicendo che “è assurda una guerra condotta in nome di Dio”, mentre nel 1995 arriverà a dire che “anche la crociata medievale per la difesa dei luoghi santi è dissonante dal Vangelo”: si stava preparando la famosa “liturgia del perdono” che caratterizzerà il Giubileo del 2000. In Giovanni Paolo II vi è, soprattutto a partire dal primo incontro delle religioni ad Assisi (1986), una ferma volontà di togliere ogni legittimità a guerre di religione e scontri di civiltà.
L’altra novità, ancor più dirompente, è quella contenuta nel messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2002, certamente l’apice teologico del pensiero sulla pace del papa attuale. È il messaggio che giunge all’indomani della data spartiacque dell’11 settembre che ha provocato un ripensamento della stessa concezione del termine “guerra” e che ha in un colpo solo messo a nudo l’impotenza delle tradizionali vie di composizione diplomatica o istituzionale delle crisi internazionali o intranazionali. Ebbene, in quel documento Giovanni Paolo II si spinge ben oltre la convinzione che “opera della giustizia è la pace”: egli infatti non solo ribadisce che quando la giustizia è violata e ferita deve essere ristabilita affinché possa farsi strada la pace, ma afferma che nella giustizia da cui dipende la pace, nella giustizia che è fondamento della pace, deve essere inscritto il principio del perdono.
È una novità assoluta, e il papa è consapevole dell’audacia di quanto afferma, soprattutto in considerazione del momento storico e delle circostanze particolari in cui lo afferma. Anche perché non si tratta del consueto invito all’esercizio di una virtù personale, “eroica” finché si vuole, ma di una via proposta con forza all’intero consesso civile: “Solo nella misura in cui si affermano un’eticae una culturadel perdono, si può anche sperare in una politica del perdono, espressa in atteggiamenti sociali e istituti giuridicinei quali la stessa giustizia assuma un volto più umano”. Etica, cultura, politica, atteggiamenti sociali, istituti giuridici: è la risposta globale alla nuova tipologia di guerra creatasi con il terrorismo internazionale. Quella del perdono perseguito come strumento efficace di pace è, mi pare, la nuova frontiera del “pacifismo istituzionale”: non solo, per usare le efficaci definizioni di Bobbio, quello “giuridico, ovvero la pace attraverso il diritto”, non solo quello “sociale” nelle due diverse accezioni di conseguenza della rivoluzione sociale e di eliminazione delle ingiustizie sociali, bensì il perseguimento ostinato e dotato di strumenti concreti del perdono “a livello sociale”, di polis. “La convinzione a cui sono venuto ragionando e confrontandomi con la rivelazione biblica – scrive il papa, con rara partecipazione anche emotiva – è che non si ristabilisce l’ordine infranto se non coniugando tra loro giustizia e perdono. La giustizia non è sufficiente per la pace e il perdono è immanente alla giustizia. Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono!”.
Mi pare che qui si apra lo spazio a un confronto serrato e nel contempo ad ampissimo raggio: tutti ci dovremmo sentire coinvolti in questa sfida. Non la guerra globale, non lo scontro di civiltà, ma lo sforzo tenace di tutti gli uomini e le donne di buona volontà è necessario oggi all’umanità. Il cammino è lungo e arduo, abbiamo qua e là mosso appena i primi passi, ma è indispensabile il contributo e la ricerca delle migliori menti e dei migliori cuori di tutte le discipline: non solo teologi e maestri delle diverse confessioni cristiane e delle religioni, ma antropologi e sociologi, filosofi e giuristi, teorici e testimoni attivi della non-violenza, assemblee parlamentari e istituzioni nazionali e sopranazionali… È in gioco, ancora una volta, la scelta tra ciò che è “alieno dalla ragione”, la guerra, e ciò che risponde alle attese dei cuori di tutti gli uomini e le donne, la pace!
Enzo Bianchi