Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Leadership: comunità, carisma, ministero

01/07/2021 01:00

Sandra Deoriti

Testi di Amici 2021,

Leadership: comunità, carisma, ministero

Sandra Deoriti

Non conosco Sandra Deoriti e dunque non posso dire che sia un’amica, ma questo suo testo al quale aderisco con convinzione e che offro alla lettura è veramente molto intelligente. Le sono grato perché mette in evidenza come evangelicamente dovrebbe essere il rapporto comunità, carisma e ministero.

D’altronde, in coscienza, penso di essermi attenuto alle esigenze qui illustrate dall’autrice. Per questo ho dato liberamente le dimissioni da priore anche se nessuno le chiedeva e ho cessato realmente di guidare la comunità, continuando tuttavia il ministero di predicatore del Vangelo nel mondo, non avendo nessuna vocazione eremitica e nessuna intenzione di scomparire.(eb.)

di Sandra Deoriti

Mastico appena l’inglese, ma mi dicono che negli Stati Uniti il termine “leader” viene impiegato anche per indicare il direttore d’orchestra: un accostamento suggestivo e pertinente a circoscrivere il ruolo guida dell’uno fra i molti in modo compatibile con lo statuto ecclesiale, gerarchico e, insieme, comunionale.

 

Tralasciando in questa sede le figure istituzionali dell’autorità e della presidenza dell’assemblea liturgica nelle quali si è storicamente incarnata la struttura ecclesiastica e che ne rappresentano, per così dire, la componente “oggettiva”, mi concentro su quella capacità soggettiva di conduzione e indirizzo che, variamente declinata, abita e sospinge il corpo ecclesiale.

 

Essa può emergere anche dai luoghi e dai volti della istituzione Chiesa, e non di rado; ma il dono peculiare che rende alcuni, piuttosto che altri, punti di riferimento per le comunità o le aggregazioni ecclesiali non attiene necessariamente al loro stato, quanto al personale carisma di cui sono portatori.

 

E l’immagine del direttore d’orchestra esplica bene la qualità armonizzatrice di tale soggetto: protagonista – alla lettera – sul quale convergono gli occhi dei musicisti, in concentrata sintonia e consapevole esercizio di una parte “sottoposta” al gesto del conduttore; corrispondenza puntuale, vigile, concorde, che trasforma l’atto del “seguire”, e dell’eseguire la propria specifica partitura entro l’insieme, in una tessitura sonora tanto legata e fluente da soverchiare il gioco e la precedenza delle parti.

 

Il docile orchestrale che al meglio asseconda il Maestro non è un mero recettore di ordini dal podio, non un passivo esecutore, come ben sa chiunque frequenti la buona musica e le buone orchestre.

 

Il direttore, poi, fra le sue doti di competenza musicale deve averne una imprescindibile: il cosiddetto “orecchio assoluto”. Al di là del divismo esibito e del mito costruito intorno ad alcune grandi personalità, chi guida con mestiere un corpo orchestrale o anche un ensemble di minore entità possiede la lingua dei suoni, vocali e strumentali, al punto di massima definizione, sia singolarmente presi sia nel loro impasto, fusione ottimale da ricercare con prove su prove, perché l’orchestra risuoni come un tutto unico.

 

Quest’ultima caratteristica, una rara capacità di ascolto e riconoscimento delle “voci”, valorizzate al più alto livello possibile in un insieme dato e in vista di un’opera comune, in senso traslato mi pare applicabile anche alla leadership in ambito ecclesiale.

 

Anzi, requisito qualificante, se ammettiamo che nella chiesa il dirigismo e il protagonismo, quand’anche dei migliori, trova un argine nella dimensione basilare della fraternità, e che il monito sul non farsi chiamare “maestri” continua pur sempre a risuonare.

 

L’esigenza che chiunque rivesta una funzione guida in seno alla comunità cristiana coltivi in se stesso la facoltà dell’ascolto va riaffermata con testarda determinazione, a costo di apparire monotoni e ripetitivi, moralisti e pignoli insoddisfatti: l’ascolto è un’arte che si apprende, faticosa e incomoda, sempre ricominciante.

 

Nei riguardi di Dio, è la precondizione stessa dell’esistenza credente, della libera e amorosa obbedienza della fede che risponde a una precedenza, a una fonte non autoprodotta, a un Altro che parla a noi, in noi. Nei riguardi del prossimo, e in particolare di quel prossimo che il vocabolario cristiano denomina “fratello” o “sorella”, prefigurando una azzardata intrinsecità non a caso spesso sbiadita nei concreti vissuti, l’ascolto è componente essenziale dell’amore: anche l’amore che diciamo oblativo, la carità che non cerca il tornaconto e non domanda restituzione, non è elargizione filantropica, signorile condiscendenza del maggiore verso il minore.

 

Disporsi ad ascoltare l’altro, fermarsi ad ascoltare l’altro, perdere tempo con l’altro, è molto di più che rispondere ai suoi bisogni. Forse, questo è uno dei motivi per cui pare relativamente più semplice gestire punti di volontariato elargitorio che non trovare, negli spazi ecclesiali, luoghi e momenti di reale, non frettoloso ascolto reciproco.

 

Insisto sul punto: specialmente chi si trovi a giocare un ruolo di leader non occasionale, cioè a godere di credito, di maggiore esposizione, di responsabilità nella vita ecclesiale, dovrebbe cercare accuratamente aiuto e contrappeso presso qualche consigliere saggio, entro o fuori la comunità di appartenenza, se non altro per essere di quando in quando richiamato alla retta misura, e per mantenere la vigilanza su di sé.

 

L’attitudine e l’abitudine a occupare un posto di prima fila, a condurre piuttosto che essere condotti, a prendere spesso la parola piuttosto che a tacere, e simili cose che attengono allo statuto implicito della leadership, in costanza di tempo inevitabilmente producono una forma mentis che a sua volta favorisce coazione a ripetere.

 

Non occorre essere psicologi per osservare l’adozione di certi atteggiamenti, di certi schemi di comportamento, spesso subliminali, quasi mai intenzionali, benché non manchino situazioni nelle quali il soggetto si “gonfia” e insuperbisce – ma non interessa tanto la deviazione, quanto la normalità di un habitus rivestito da persone virtuose, sensibili, convinte, e giustamente, di svolgere un servizio, pastorale, educativo, formativo, in favore del popolo di Dio al quale si dedicano senza risparmio.

 

A costoro, come si legge in tanti passi del corpus paolino, deve andare la riconoscenza e il rispetto delle comunità, che necessitano di punti di coagulo, di sprone, di ammaestramento, oltre il momento liturgico.

 

In modo diverso, ma non meno significativo di chi dà testimonianza alla Chiesa di una vita pura, generosa, povera e orante, le figure di autorità, piccola o grande, sorreggono, aprono cammini, canalizzano forze vive di altri credenti, conferiscono una impronta leggibile e danno voce alla chiesa storicamente incarnata nelle varie epoche e mondi.

 

Eppure il loro pregio indiscutibile sussiste se e finché non divengano monadi corrose dall’usura del ruolo e fatte “casta” nel grande e delicatissimo corpo che è la Chiesa di Cristo.

 

Per questo, un elementare principio di cautela e di disciplina nello svolgimento del proprio compito, di cui è componente essenziale, dicevo, la capacità di ascoltare, di tenere aperto l’orecchio, lo vedrei rispecchiato nel bilanciamento della propria leadership con il dono del “consiglio”.

 

Il consiglio di un altro o di altri, ai quali programmaticamente ricorrere per dubitare di sé e non smarrire la postura del discepolo, colui che porge l’orecchio per apprendere, e apprendere anche ad ascoltare.

 

Un versetto del Siracide che ho in memoria in una vecchia traduzione recita: “Se vedi un saggio va’ presto da lui, e il tuo piede logori la sua soglia” (6,36).

Mi pare bellissimo e pieno di verità umana e spirituale.

Forse scarseggiano i saggi, forse dilaga la fretta, la febbre del fare che si oppone alla sosta: male diffuso, scivolato se non dilagato anche nella Chiesa. Ma “fra voi non è (sia) così”: per non azzerare del tutto la novità di vita portata dal Cristo, una differenza non ostile fra lo stile della Chiesa e quello del mondo va pure salvaguardata.

 

Nello specifico, posizioni di preminenza in ambito ecclesiale non dovrebbero intestarsi anche la virtù della saggezza o il dono del consiglio, quasi fossero loro intrinseche a tutto tondo: alla statura del leader di norma associamo capacità di visione, di umano ascendente, qualità spirituali che ne fanno una personalità trainante per altri soggetti, ma non è detto che questo “talento” messo a frutto in ambito comunitario, al di fuori di sé, valga anche per sé. Anzi.

 

Nella singolare economia di scambio e di grazia che vige nella Chiesa, nessuno basta a se stesso, nessuno è Maestro di se stesso, e il più grande deve tornare a farsi piccolo, a scoprirsi piccolo qual è in realtà, se solo conserva il contatto con la propria misura.

 

Il piede che logora la soglia della casa del saggio è tenace, paziente, insistente: non si parla di occasionale resipiscenza o di un saltuario bagno di umiltà, ma dell’abito virtuoso che si adotta e ci si sforza di mantenere a contrappeso della tentazione sottile dell’autosufficienza.

 

Però non da soli, allo specchio di sé stessi o della propria supposta capacità autocritica, ma sotto-ponendosi materialmente, regolarmente, al discernimento di un altro, traslocando in quell’ora pedagogica in mezzo al gregge, o fra i rematori che non reggono il timone.

 

L’interruzione volontaria e programmatica dell’habitus dirigista non vorrei tuttavia che fosse ascritta esclusivamente alla sfera morale, come antidoto al rischio della vanagloria o simil cosa. Senza sottovalutare questo aspetto, mi sembra da privilegiare l’aspetto propriamente conoscitivo, la rispondenza al “conosci te stesso”, cioè il tuo limite.

 

La coscienza del “limite” solo l’altro può darcela, con lo sguardo esterno del “saggio”che sa cogliere se il leader sta facendo sviluppare oppure avvizzire i canali relazionali che alimentano la vita; se la cupido dominandi, che secondo gli antichi è il più forte di tutti i desideri e si annida fin nelle minime nicchie dei piccoli poteri, resta sotto controllo o rischia di esondare in qualche forma di egolatria.

 

Vedrei dunque questo atto di sospensione, di temporaneo arresto dell’usuale modo di essere e di porsi, come una fondamentale esperienza conoscitiva e “pratica”, che fa risaltare l’identità transitiva della persona, secondo la definizione di F.G. Brambilla, ossia la consapevolezza del debito per ciò che si riceve dagli altri, la costituzione dialogica dell’umano.

 

Il fascino carismatico che promana da talune personalità, che paiono destinate a emergere in ogni contesto, oppure l’autorevolezza meno appariscente di altri soggetti che si guadagnano passo dopo passo stima e fiducia presso i compagni di viaggio, e in generale la gamma di possibilità in cui può esprimersi la leadership (tra le quali la figura del mentore meriterebbe uno spazio a sé), interagisce comunque con le infinite variabili delle donne e degli uomini che, anche solo nel perimetro ecclesiale, nei confronti dell’uno o dell’altro leader manifestano apprezzamento o fastidio o indifferenza, disponibilità alla sequela cooperante o volatile simpatia, e mille altre reazioni possibili.

 

Intendo dire banalmente che nessuno può piacere a tutti, e non per sempre.

 

Che cioè un leader dovrebbe mettere in conto – fra le cautele necessarie al suo ruolo – la coscienza della selettività operata dalla sua linea e/o dalla sua stessa personalità, e la coscienza della provvisorietà: persino ciò che pare più assodato va considerato come provvisorio, come esposto alla crisi, o semplicemente all’esaurimento.

 

Pensavo a queste cose mentre arrivavano a pioggia notizie e commenti sul mesto epilogo della vicenda di Bose. A prescindere dalle valutazioni delle ragioni e dei torti, che lascio ai meglio introdotti, essa offre materia di riflessione anche in ordine al nostro argomento.

 

Partire a rovescio, dall’ultimo atto che sembra chiudere il sipario su un primo attore di lunga e chiara fama e di largo seguito come Enzo Bianchi, è non meno utile che ripercorrerne la parabola dagli esordi, almeno per quanto concerne il ruolo del leader: il punto terminale di crisi contiene infatti una sua verità che non va confusa con un “bilancio” e forse esige più la sospensione che non la formulazione di un “giudizio”.

 

È la verità iscritta nell’esito finale di chiunque si sia intestato, o visto intestare, un posto di protagonista, apripista, conduttore, di molte storie di vita, di molte opere ed eventi: è l’ora che segna la cesura, un cambio di passo, un cambio d’epoca, l’ora di farsi indietro e di passare il testimone, l’ora di spossessarsi.

 

Beato chi giunge preparato a quell’ora, coltivando da prima l’arte del distacco, imbevuta di un intenso, ineliminabile “patire”: altro è infatti dire, altro sperimentare in sé stessi la prova delle parole dette e credute, che altri semina e altri miete, e custodire la gioia dell’amico dello sposo: “Egli deve crescere e io diminuire” (Gv.3,30).