Il Blog di Enzo Bianchi

Il Blog di Enzo Bianchi 

​Fondatore della comunità di Bose

Leggere il presente. Ricominciare nel dopo-pandemia

02/05/2022 01:00

Francesco Cosentino

Testi di Amici 2022,

Leggere il presente. Ricominciare nel dopo-pandemia

di Francesco Cosentino

di Francesco Cosentino

Il sentire comune che accompagna i nostri giorni può introdurci a una lettura del tempo presente: viviamo tempi di crisi, si sente dire da più parti. Il passato trionfante dell’epoca del progresso e del benessere, tipico della modernità, è alla spalle; il futuro si staglia all’orizzonte senza suscitare speranze e attese, ma soltanto incertezze e timori dinanzi all’ignoto; il presente – dopo due anni di pandemia, una guerra che rischia di coinvolgere il pianeta e molti altri problemi personali e sociali che sovrastano la nostra vita – ci appare abitato da una stanchezza di fondo, dal senso della finitudine, dalla malinconia racchiusa nei frammenti dell’esistenza quotidiana.

 

Viviamo quella che è stata chiamata “l’epoca delle passioni tristi”, in questo clima postmoderno in cui si spengono i grandi ideali e le grandi speranze e ci si accontenta di vivere con mestizia alla giornata: «assistiamo, nella civiltà occidentale contemporanea, da una fiducia smisurata a una diffidenza altrettanto estrema nei confronti del futuro» (M. Benasayag – G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004, 18). Questa crisi, come ormai segnalato da più parti, anche in teologia, coinvolge anche la fede, essendo l’atto di credere fondato sulla fiducia: se crollano le fiducia fondamentali della nostra vita, viene meno anche la fiducia religiosa. Dunque, «i nostri tempi sono tempi duri per la fede, per ogni fede, sacra o secolare» (Z. Bauman, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, Il Mulino, Bologna 2002, 196).

 

Leggere la crisi?

 

Come sta la nostra fede, la nostra Chiesa, la nostra vita di credenti e le pratiche del nostro credere davanti alla crisi? La domanda cruciale che dobbiamo porci è questa.

 

Si tratta di una domanda teologica e non esistenziale o sociologica. La fede cristiana, infatti, non è una semplice memoria del passato, una commemorazione o, ancor peggio, una fuga dalla storia, ma si fonda sull’incarnazione di Dio in Gesù, nelle viscere della storia. E lo scandalo dell’Incarnazione di Dio ci obbliga a non restare a fissare il cielo, ma a vivere dentro le dinamiche di questo mondo, interpretando la realtà a partire dall’evento più sconvolgente della storia dell’umanità: Gesù di Nazaret.

 

Cosa è successo con l’irrompere di Gesù nella storia dell’umanità? Possiamo rispondere cercando una risposta semplice, pur consapevoli della complessità della domanda: «la predicazione di Gesù ha messo in moto un processo che si compirà in modo totale con la venuta gloriosa del Regno stesso» ( M. Bordoni, Gesù di Nazareth. Presenza, memoria, attesa, Queriniana, Brescia 2000, 142). Dio si è ormai avvicinato ed iniziato quindi un mondo nuovo, una vita nuova da accogliere; per questo Gesù attribuisce un’importanza decisiva al presente, in relazione a ciò che avverrà alla fine: discernere questo tempo, vigilare, vegliare e vagliarlo, restare svegli nell’attesa del ritorno del padrone.

 

Essere cristiani rispetto in questo tempo significa allora stare nella storia, perché in essa il Regno di Dio ha già fatto irruzione in Gesù e in Lui abbiamo garanzia che Dio è all’opera in ogni situazione; poi “leggere la storia” con gli occhi della profezia evangelica che in Gesù ha preso carne, per discernere come e dove Dio è all’opera, quale sentiero ci invita a percorrere, anche attraverso le stesse crisi della storia e della nostra vita. Come afferma Schillebeeckx «il cristianesimo è un’interpretazione credente della realtà e della storia» (E. Schillebeeckx, Intelligenza della fede, Paoline, Roma 1972, 46).

 

Una lettura teologica della crisi

 

Leggere il tempo presente, allora, significa anzitutto partire da una coraggiosa interpretazione teologica della crisi: non solo leggere le crisi del nostro tempo e della nostra vita con gli occhi della fede, come spesso diciamo, ma molto di più: credere che nella crisi c’è Dio, che la crisi è luogo della sua presenza, della sua rivelazione, della parola che Egli intende rivolgerci.

 

In tal senso, il tempo della crisi non è una catastrofe da subire, ma è un “luogo” fondamentale dell’esistenza umana in cui vengono messe sotto accusa le nostre consuetudini e il nostro conformismo – anche ecclesiale – e siamo invitati al cambiamento. Papa Francesco afferma:

 

Chi non guarda la crisi alla luce del Vangelo, si limita a fare l’autopsia di un cadavere: guarda la crisi, ma senza la speranza del Vangelo, senza la luce del Vangelo. Siamo spaventati dalla crisi non solo perché abbiamo dimenticato di valutarla come il Vangelo ci invita a farlo, ma perché abbiamo scordato che il Vangelo è il primo a metterci in crisi. É il Vangelo che ci mette in crisi. Ma se troviamo di nuovo il coraggio e l’umiltà di dire ad alta voce che il tempo della crisi è un tempo dello Spirito, allora, anche davanti all’esperienza del buio, della debolezza, della fragilità, delle contraddizioni, dello smarrimento, non ci sentiremo più schiacciati, ma conserveremo costantemente un’intima fiducia che le cose stanno per assumere una nuova forma, scaturita esclusivamente dall’esperienza di una Grazia nascosta nel buio […] Sotto ogni crisi c’è sempre una giusta esigenza di aggiornamento (Papa Francesco, Discorso alla Curia Romana per gli auguri natalizi, 21 dicembre 2020).

 

Abbiamo dunque bisogno di una lettura teologica sulla crisi, perché «la crisi molto spesso nasconde un’immensa Grazia […] c’è quindi una lezione da imparare anche dai tempi difficili che stiamo vivendo» (L. M. Epicoco, Stabili e credibili. Esercizi di fedeltà quotidiana, Paoline, Milano 2020, 16).

 

Scenari del tempo presente

 

Se dovessimo soffermarci sui diversi scenari della crisi spirituale del nostro tempo, certamente potremmo a grandi linee concentrare la nostra riflessione sull’attuale forma di assenza di Dio che attraversa la nostra civiltà occidentale da alcuni decenni, come epilogo della “morte di Dio” annunciata da Nietzsche. Secondo una bella accezione di Karl Rahner, oggi viviamo in un tempo in cui gli uomini hanno dimenticato di aver dimenticato Dio (Cfr. K. Rahner, «La paroletta “Dio”», in Id., La grazia come libertà. Brevi saggi teologici, Paoline, Roma 1970, 10). Siamo passati da un ateismo militante e combattivo all’epoca dell’amnesia spirituale, dell’oblio di Dio.

 

Dentro questa prima grande cornice si situano, però, altre crisi della nostra vita, della nostra società e della nostra fede, che erano forse sopite ma sono riemerse con l’affacciarsi della pandemia da coronavirus.

 

La recente pandemia, secondo le profetiche parole di Papa Francesco, ci ha fatto vedere come fino ad oggi abbiamo creduto di essere sani in un mondo che in realtà era ammalato. La scontata e presuntuosa fiducia riposta nel paradigma tecnico-scientifico è venuta meno, la velocità del progresso e della modernità secolarizzata è stata messa sotto accusa, gli squilibri e le ingiustizie sociali ed economiche che feriscono il nostro pianeta sono emerse in tutta la loro drammaticità, la società dei consumi imperniata su un capitalismo iniquo è stata definitivamente messa sul banco degli imputati.

 

Ma la pandemia ha sconvolto e messo in crisi l’ordinaria attività ecclesiale e pastorale, portando alla luce una crisi però già in atto. Quelle chiese vuote sono state anche il simbolo di quanto accade e accadrà sempre di più nella vecchia Europa e, perciò, una sfida che – come afferma il teologo e filosofo ceco Tomáŝ Halik – viene direttamente da Dio (T. Halík, Il segno delle Chiese vuote. Per una ripartenza del cristianesimo, Vita e pensiero, Milano 2020, 9). E ciò ci pone davanti ad sfide, per abbandonare con coraggio un certo stile di cristianesimo e ricominciare a credere in modo nuovo (Si possono leggere con frutto le interessanti analisi di A. Fossion, Il Dio desiderabile, EDB, Bologna 2011; Id., Ri-cominciare a credere, EDB, Bologna 2004).

 

Oggi, infatti, in molte aree del mondo assistiamo a un declino dell’esperienza cristiana nelle forme in cui l’abbiamo conosciuta e tramandata per secoli, le nostre comunità ecclesiali sono attraversate da una crisi profonda e molte persone hanno abbandonato la fede, non già in forza di un’idea ostile, ma per apatia e indifferenza alla domanda su Dio.

 

In questa situazione, siamo chiamati a chiederci quale parola Dio ci sta rivolgendo e dove ci sta conducendo perché “sotto ogni crisi c’è sempre una giusta esigenza di aggiornamento» (Papa Francesco, Discorso del Santo Padre ai Membri del Collegio Cardinalizio e alla Curia Romana, per la presentazione degli auguri natalizi, 21 dicembre 2020). Più importante della crisi, dunque, è la domanda con cui ci poniamo dinanzi a essa. Qual è il messaggio che la crisi porta con sé? Si è trattato di una parentesi nell’attesa che tutto ritorni come prima oppure c’è una lezione da imparare? (Ho ampiamente trattato il tema nel mio ultimo libro, cfr. F. Cosentino, Quando finisce la notte. Credere dopo la crisi, Dehoniane, Bologna 2021).

 

Sfide e provocazioni per ricominciare

 

Vorrei indicare tre grandi sfide, all’interno delle quali ovviamente sono contemplate molte declinazioni pastorali su cui riflettere. Non sono ricette o proposte, ma piuttosto domande per ricominciare a interrogarsi.

 

1. Anzitutto occorre ripartire da Dio e riscoprire Dio. Il teologo Pierangelo Sequeri ha riflettuto su come il tempo della pandemia ci può far riscoprire, oltre la mascherina, uno sguardo nuovo, la bellezza di uno sguardo buono (Si veda P. Sequeri, Lo sguardo oltre la mascherina, Vita e Pensiero, Milano 202).  Sicuramente i progressi della scienza e della tecnica sono reali e hanno contribuito a migliorare la qualità della vita. Tuttavia, la pandemia è arrivata quasi a certificare una situazione di cui eravamo saturi: abbiamo demandato la nostra salvezza e la nostra felicità esclusivamente allo strapotere del progresso e dei mezzi a nostra disposizione, consegnandoci al culto del benessere a tutti i costi e dell’individualismo, salvo che, un piccolo virus, ci ha fatto scoprire e toccare con mano la nostra vulnerabilità e la nostra fragilità. Nella nostra società occidentale, ubriacata dal progresso e dalla corsa a tutta velocità, abbiamo rimosso la nostra fragilità, così come i temi del dolore e della morte; e il virus è stato il contraccolpo di queste rimozioni e ci ha ricordato che non siamo signori della vita e della morte. Solo Dio è il Signore. In tal senso, la pandemia può farci riscoprire lo sguardo buono di cui parla Sequeri: uno sguardo tenero e accogliente verso le nostre fragilità e, al contempo, lo sguardo buono di Dio su di noi: quello sguardo con cui Dio ci guarda e che in fondo è Gesù stesso; e quegli occhi di Gesù che non giudicano e non violentano, ma scrutano gli avvilimenti, gli abbandoni, gli scarti, le emarginazioni e le ferite di coloro che soffrono, per offrire tenerezza, compassione, accoglienza, perdono.

 

Dinanzi a tutte le immagini di Dio false, distorte, talvolta perfino blasfeme che ancora sono presenti in un certo cristianesimo e in una certa predicazione della Chiesa, occorre tornare allo sguardo buono di Dio che ci viene mostrato in Gesù e, al contempo, trasformare e convertire il nostro sguardo su Dio per riscoprirlo e farlo riscoprire specialmente ai nostri giovani. Sempre, ma specialmente oggi, dobbiamo chiederci «di quale Dio stiamo parlando» e, cioè, verificare se il Dio cercato, pregato o semplicemente nominato, sia davvero il Dio di Gesù Cristo.

 

Nella pandemia si è visto come possiamo sempre correre il rischio di coltivare una falsa e idolatrica immagine di Dio: un Dio che dovrebbe risolvere il problema sanitario dall’alto e con un evento straordinario o addirittura Dio additato come responsabile della sciagura, magari per lanciarci un avvertimento o per punirci a causa del nostro peccato.

 

David Neuhaus ha parlato dei molti profeti di sventura che estrapolano versetti biblici per proclamare che la pandemia che stiamo vivendo è una punizione di Dio adirato contro un mondo peccatore. Essi citano versetti contro qualsiasi cosa urti la loro sensibilità e infieriscono a colpi di Scritture su un’umanità già ferita e sanguinante. Talvolta sembra quasi di avvertire la soddisfazione con cui citano passi che descrivono piaghe e catastrofi scagliate da un Dio permaloso su un mondo che ha bisogno di essere punito. Sullo stesso palcoscenico, accanto a questi sedicenti profeti animati dall’ira divina, si stagliano i moralisti del «te l’avevo detto», che a loro volta hanno setacciato le Scritture in cerca di testi che consentano di predicare con autorità le loro convinzioni circa ciò che è giusto a un mondo che finalmente dovrà riconoscere che la loro è davvero la ricetta per un domani migliore (D. Neuhaus, «Il virus è una punizione di Dio?», in La Civiltà Cattolica, Vol II, Anno 2020, 238).

 

Dunque, la crisi mette in crisi Dio stesso, cosicché – come affermava Meister Eckart – ci liberiamo di Lui per ritrovarlo in modo totalmente nuovo. La crisi è un’opportunità per guardare a Gesù, che ci mostra il Dio dell’amore, che non castiga né invia flagelli, ma ci ama fino a condividere, portare e trasformare il nostro dolore. Così, come ci ha insegnato la riflessione teologica dopo Auschwitz, impariamo a parlare di Dio e pregare Dio a partire dalla sofferenza delle vittime, sviluppando quella che Metz chiama «mistica dagli occhi aperti» (Cfr. J. B. Metz, Mistica dagli occhi aperti. Per una spiritualità concreta e responsabile, Queriniana, Brescia 2013): se la croce di Gesù è il segno estremo della vicinanza di Dio verso tutti gli oppressi in virtù del loro riscatto, essa ci invita a coltivare non più una religione intimista e consolatoria, ma una fede che diventa la «memoria pericolosa» dell’evento Cristo. Noi dobbiamo cioè riattualizzare ciò che Gesù ha vissuto con la croce esercitando nella vita, nella società e nella storia la stessa compassione di Gesù. E lo stile di Chiesa, nelle sue pratiche pastorali, dovrà mediare questo annuncio: il Dio che sta dalla parte della sconfitta, per risanare i loro cuori spezzati; il Dio compassionevole che si commuove, raccoglie le lacrime, scende nella storia per farsi offerta di liberazione, si lascia ferire e toccare dal nostro dolore, fino ad assumere in sé la contraddizione della morte (Cfr. S. Dianich, Il Messia sconfitto. L’enigma della morte di Gesù, Cittadella, Assisi 1997). Il Dio crocifisso, che nella carne di Gesù inaugura una storia nuova in mezzo alla storia di sofferenze di un mondo abbandonato (Cfr. J. Moltmann, Il Dio crocifisso, Queriniana, Brescia 2013, 195), e chiama anche noi a porre nel mondo segni di liberazione e giustizia.

 

Oggi siamo dinanzi a una nuova possibilità che ci chiede un po' di coraggio e creatività nel chiederci: come annunciare in modo nuovo il volto di Dio, specialmente ai nostri giovani e ragazzi? Abbiamo bisogno di nuovi linguaggi, nuove vie, nuove proposte, partendo da Gesù e dal Suo vangelo:

 

Un Dio amico e amante, innamorato “fino all’estremo” di ogni essere, servitore umile delle sue creature […] Un Dio che non sta in nessuna religione né Chiesa perché abita il cuore in ogni cuore umano e accompagna ogni essere nella sua disgrazia; un Dio che soffre nella carne degli affamati e miserabili della terra; un Dio che ama il corpo e l’anima, la felicità e il sesso; un Dio che sta con noi per “cercare e salvare” ciò che noi roviniamo e mandiamo all’aria […] Un Dio che libera dalle paure e vuole da adesso la pace e la felicità per tutti […] Un Dio di cui uno si possa innamorare (J. A. Pagola, Annunciare Dio come buona notizia, EDB, Bologna 2017, 37).

 

2.  In secondo luogo, abbiamo bisogno di immaginare un nuovo modo di essere Chiesa. La recente pandemia ha rivelato non pochi aspetti della nostra vita ecclesiale, su cui non possiamo più permetterci di soprassedere. Anche se l’analisi non è esaustiva, in generale si può dire che la situazione generata dal Covid 19 ha in qualche modo smascherato la debolezza strutturale e anche una certa povertà spirituale che presiede alla nostra azione pastorale. È emerso come la comunità cristiana, una volta interrotta l’esperienza delle attività ordinarie, sia stata assalita dall’incapacità di pensare e immaginare altro.

 

Enzo Biemmi ha giustamente affermato:

 

anche noi Chiesa, dopo essere “andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto”, siamo stati obbligati a fermarci, a stare in casa, a sospendere le attività che tanto ci hanno coinvolto e appassionato. E come abbiamo reagito? Ci ha preso l’ansia della spogliazione. Quel vuoto è diventato insopportabile. Nei nostri ambienti ecclesiali si è parlato spesso di «clausura forzata» e raramente di «tempo di grazia» […] La reazione istintiva è stata quella di riempire. Siamo passati dall’ansia di un’agenda troppo piena all’angoscia di un’agenda improvvisamente vuota. Abbiamo cercato subito di tappare ogni fessura sostituendo alle attività in diretta quelle in streaming e sui social (E. Biemmi, «Non è una parentesi? Metafore per non dimenticare», in D. Olivero (a cura di), Non è una parentesi. Una rete di complici per assetati di novità, 4-5).

 

Presi dall’ansia del vuoto, abbiamo dovuto riempirlo in diretta su streaming e sui social e, accanto a proposte buone, inevitabilmente non sono mancati esempi di spettacolarizzazione della liturgia; si è considerato imprescindibile celebrare la Messa e, perciò, la si è fatta anche in streaming, a prescindere dalla presenza del Popolo di Dio: il prete ha celebrato e il popolo di Dio ha “assistito” davanti a uno schermo. Ciò ha rispolverato l’idea della Messa come culto individuale, come un atto del prete.

 

Se allarghiamo la riflessione in generale sull’agire pastorale e sulla vita delle comunità cristiane bisognerebbe riflettere su quella che Papa Francesco, in Evangelii gaudium ha chiamato il predominio della sacramentalizzazione sulle altre forme di evangelizzazione. Alla fine, tutta l’esperienza liturgica e pastorale è stata ridotta alla sola celebrazione della Messa, trascurando altri elementi della ricca tradizione cristiana, altrettanto importanti e forse, soprattutto oggi, propedeutici alla celebrazione dei sacramenti. Al centro non c’è ancora l’annuncio del Vangelo e una nuova iniziazione alla Parola di Dio e alla preghiera, ma la preoccupazione sulla data delle prime comunioni, sulla ripresa degli orari delle Messe, e casomai di qualche processione.

 

In generale, ma soprattutto con i nostri ragazzi e giovani, non funziona più. Ai sacramenti alla celebrazione domenicale non si arriva più con un background, un cammino cristiano già alle spalle, sperimentato in famiglia o nella stessa vita società; forse dovremmo rivedere non solo i contenuti ma anche lo stesso impianto di fondo della catechesi dell’iniziazione cristiana; forse dovremmo sganciarla dal metodo eccessivamente scolastico e se possibile anche dall’amministrazione del sacramento, dove alla fine la comunione e la cresima diventano il premio se hai frequentato e preso la presenza. Forse occorre ritornare a far innamorare i giovani della figura di Gesù e dei Vangeli, a scoprire la presenza di Dio in alcune occasioni familiari e nelle esperienze della vita quotidiana.

 

Nel tempo della pandemia sono nate interessanti sperimentazioni di preghiera in famiglia, di liturgie della Parola celebrate a casa, di celebrazioni domestiche preparate e vissute con tanto di segni e di sussidi:

 

chiediamoci: ed ora, saremo migliori a messa? Dipende anche da come noi, vescovi e preti, ce la giocheremo: se ci troveremo a celebrare come prima, se la nostra pastorale sarà di nuovo solo la messa e non avremo imparato che bisogna offrire lectio sulla Parola, momenti di riflessione comune e di confronto tra gli adulti, sostegno alla fede nelle case…allora ce la giocheremo malissimo e condurremo la gente alla fede devozionale, individuale, formale, astratta. E anche spesso triste ( D. Olivero, «Non è una parentesi», in Id., (a cura di), Non è una parentesi. Una rete di complici per assetati di novità, 27).

 

Infine, abbiamo bisogno di una spiritualità della vita quotidiana e di annunciare in modo nuovo il Vangelo. Il tempo sospeso e drammatico della pandemia ha fatto emergere l’esigenza di una nuova spiritualità, in un tempo in cui i sentieri e le forme tradizionali del vivere la fede in Occidente sono profondamente in crisi.

 

Talvolta, rischiamo di abbracciare la fede non per armarci di coraggio dinanzi alle sfide della vita, ma per disarmare noi stessi, per cercare di placare le nostre angosce e di spegnere le nostre paure. Invece, proprio il diffuso sentimento di angoscia e di paura collettiva generato dalla pandemia ci invita a riconsiderare il cuore della spiritualità cristiana. Essa è una relazione con il Dio che in Gesù si è fatto carne; non è una religione che si risolve in un sistema rigido di norme e precetti o in devozioni «celesti» staccate dalla storia, bensì una spiritualità della vita quotidiana, impregnata di domande, travagli, angosce, sogni e speranze che ciascuno si porta nel cuore.

 

Si tratta per lo più di una spiritualità che si fa strada nella vita feriale, che avanza senza fare rumore, nelle occasioni silenziose e anonime del vivere di ogni giorno, in luoghi che non sono templi, in parole che spesso non sono preghiere e in situazioni che non sono eventi religiosi; sono quelle che Rahner definiva le «piccole, umili ed evanescenti realtà della vita quotidiana» (K. Rahner, Cose di ogni giorno, Queriniana, Brescia 1966, 11) nelle quali Dio si rivela e ci parla e noi possiamo incontrarlo non nei grandi ideali religiosi, ma nei frammenti delle nostre giornate e della nostra povera carne.

 

Forse occorre, con un po' di immaginazione pastorale, iniziare a pensare qualche percorso che aiuti le persone a riscoprire Dio “nel bel mezzo della vita quotidiana”. La vita delle persone è profondamente cambiata, i ritmi della società sono del tutto mobili e non possiamo ancora pensare a una pastorale di conservazione, che alla fine organizza cose in Chiesa e chiede alle persone di partecipare sempre e solo in Chiesa o nei locali annessi.

 

Occorre sperimentare altre pratiche cristiane, oltre lo schema classico della pratica religiosa. Non diciamo che la pratica ecclesiale e domenicale non sia importante e necessaria, ma che molte persone di oggi hanno bisogno anche di altre vie, più creative e più legate all’esperienza della vita, in cui esse possano almeno stabilire un contatto con Dio e aprirsi alla vita spirituale. Queste stesse persone non sono sollecitate da proposte che si limitano a riproporre le classiche attività che svolgiamo in parrocchia. È una situazione non facile, ma possiamo leggerla con intelligenza pastorale e interrogarci.

 

Ovviamente, tutto ciò non nasce in modo spontaneo. C’è bisogno di un rinnovato annuncio del Vangelo per rendere possibile il messaggio cristiano in un’epoca post-cristiana, oltre ogni irrilevanza. Paul Tillich già molti decenni fa sottolineava

 

L’impossibilità della persona moderna di comprendere il linguaggio della tradizione riguarda quasi tutti i simboli cristiani. Essi hanno perso il potere di trafiggere l’anima: di rendere inquieti, ansiosi, disperati, gioiosi, estatici, recettivi nei confronti del significato. Spicca l’esempio del Gesù dalla voce flautata, emaciato, sentimentale, la cui immagine è appesa nelle aule del catechismo e alle pareti laterali delle chiese, Questo Gesù sentimentale non ha nulla da dire ai forti della nostra epoca (P. Tillich, L’irrilevanza e la rilevanza del messaggio cristiano per l’umanità di oggi, Queriniana, Brescia 2021, 51-52).

 

Non si tratta di un semplice aggiornamento nella comunicazione, ma di rimettere al centro – come auspicato da Papa Francesco – l’annuncio del Vangelo. Per qualche tempo – è una provocazione – sospendere tutte le attività pastorali e fare in modo che dai bambini agli anziani tutti possano dedicarsi, nella preghiera e nello studio, al Vangelo.

 

Conclusione

 

Concludendo, riporto la riflessione che l’economista Premio Nobel per la Pace 2006 Muhammad Yunus ha pubblicato su La Repubblica, dal titolo: “Non torniamo al mondo di prima”. 

 

L’ansia di ritornare alla cosiddetta normalità tacita la domanda su che tipo di mondo fosse quello di prima e se fosse davvero “normale”. L’inquinamento, l’economia ingiusta dello scarto, l’uso smodato delle risorse, il predominio del mercato, il modello consumistico che presiede le nostre società, è normale? Oppure questo potrebbe essere il momento storico per chiederci che tipo di persone vogliamo essere e che tipo di mondo vogliamo costruire? Yunus non ha dubbi e pone un serio interrogativo: 

 

«riportiamo il mondo nella situazione nella quale si trovava prima del coronavirus o lo ridisegnamo daccapo? La decisione spetta soltanto a noi» (M. Yunus, “Non torniamo al mondo di prima”, in La Repubblica, 18 aprile 2020).

 

Anche a livello religioso dobbiamo avere il coraggio di avviare questa riflessione; il mondo “normale” di prima, quello sistemato, religioso, incastrato nella legge, è ciò che i farisei e i dottori della legge difendono con i denti, dinanzi al vino nuovo della festa con cui uno stravagante Messia vuole inebriare la vita; con l’ossessione per l’osservanza esteriore dei precetti tentano di frenare l’onda travolgente della buona notizia del Vangelo, che si presenta come perenne novità e invito a camminare, cambiare, convertirsi. Ecco perché il Regno dei Cieli, dice Gesù, non è per coloro che mettono mano all’aratro e poi si volgono indietro. La conservazione, i pugni chiusi che stringono forte l’esistente, la strenua difesa dello status quo non appartengono alla logica di Dio. Chi guarda indietro alle cipolle d’Egitto e non marcia avanti a sé verso la Terra promessa, rischia di perdere, barattandola, quella libertà a cui è stato chiamato. Viceversa, per andare dove va Gesù non bisogna volgersi indietro: «Saremo pronti se ci abbiamo pensato bene. E ci penseremo bene, solo se lo avremo voluto. Se vogliamo veramente seguire Gesù, domandiamoci dove va. Forse va in un posto dove non si può dormire, in cui si sta scomodi…» (P. Sequeri, Senza volgersi indietro. Meditazione per i tempi forti, Vita e Pensiero, Milano 2000, 18).

 

Perché per la Chiesa non dovrebbe ascoltare questo monito e continuare a muoversi nelle acque paludose della nostalgia del passato?

 

Ascoltiamo allora l’invito, coraggioso e profetico, di papa Francesco:

 

Questo è il tempo favorevole del Signore, che ci chiede di non conformarci né accontentarci, e tanto meno di giustificarci con logiche sostitutive o palliative, che impediscono di sostenere l’impatto e le gravi conseguenze di ciò che stiamo vivendo. Questo è il tempo propizio per trovare il coraggio di una nuova immaginazione del possibile, con il realismo che solo il Vangelo può offrirci. Lo Spirito, che non si lascia rinchiudere né strumentalizzare con schemi, modalità e strutture fisse o caduche, ci propone di unirci al suo movimento capace di “fare nuove tutte le cose” (Ap 21, 5) (Il testo si trova in Francesco, «Un plan para resuscitar. Una meditación», in Vida Nueva, 18-24 aprile 2020, 8-11).