Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Sinodalità. Il contributo della teologia

09/06/2022 01:00

Roberto Repole

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Sinodalità. Il contributo della teologia

ROBERTO REPOLE

 

di Roberto Repole*

Il tema della sinodalità si è ormai imposto in modo indiscusso tanto all’attenzione del più vasto mondo ecclesiale quanto a quella del più ristretto mondo teologico. In quest’ultimo non e certo nuovo è la svolta operata dall’ultimo Concilio ne ha propiziato lo sviluppo.

 

In verità, qualche riflessione seria e preziosa sul tema e già rintracciabile alla vigilia del Vaticano II, nel momento in cui – specie dinanzi ad un’interpretazione massimalista del Vaticano I, che faceva sostenere ad alcuni persino la non necessità, ormai, di un Concilio – Giovanni XXIII aveva espresso la decisione di riunire un Concilio ecumenico. E’ il caso di Congar, che, nel febbraio del 1959, affermando che i concili rispondono ad una necessità propria del corpo ecclesiale, mostrava come essi si radichino – diremmo oggi – in una natura sinodale della Chiesa. Diceva infatti il noto teologo domenicano: “La Chiesa è, per volontà del suo Signore, strutturata gerarchicamente: Gesù ha scelto e istituito i Dodici per essere le colonne del Nuovo Israele, del Tempio spirituale. Ma ha, sin dall’inizio, collocato accanto ad essi 72 discepoli, come i consiglieri di cui Mose s’era attorniato (Lc 10,1). Il giorno di Pentecoste, lo Spirito Santo e stato donato, non solamente agli Undici, ma all’insieme dei 120 fratelli che erano riuniti nell’unanimità della preghiera (At 1,13-15). Gesù aveva accordato un valore tutto particolare di presenza ed assistenza alla riunione unanime di diversi dei suoi (Mt 18,20). La Chiesa apostolica aveva compreso che questi fatti traducevano una volontà del Signore. Si è stupiti nel vedere, quando si leggono gli Atti degli Apostoli, come, senza interruzione, un regime collegiale si articoli con una evidente struttura gerarchica. Questo è vero, già, all’interno del “Collegio apostolico”. Questo è vero di tutta la Chiesa, che è propriamente una comunità, una comunione, nella quale i semplici membri sono associati, in un consenso vivente, alle decisioni che, dopo tutto, li concernono”.

 

Congar prevede in tale scritto che uno dei temi decisivi che il prossimo Concilio dovrà affrontare sarà quello della collegialità episcopale ma, come si può intuire dal passo riportato, esso non e per lui sganciabile dal tema della partecipazione attiva di tutti alle decisioni che li riguardano, che comporta la realizzazione di un consenso vivente. Peraltro, è sempre in questo stesso testo che il teologo domenicano ha cura di ricordare il principio improntato al diritto romano e richiamato dai cristiani in epoca medievale, oggi costantemente ripetuto da chiunque parli di sinodalità: quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet.

 

E’ pero dopo il Concilio che la riflessione teologica sulla sinodalità si farà maggiormente strada. Il Vaticano II non ne parlerà direttamente e sarà preoccupato di affrontare effettivamente anzitutto la questione della collegialità. Esso ha posto tuttavia le premesse perche si potesse non solo coniare un neologismo – sinodalità, appunto –, ma trattarne e sviscerarne il senso per l’essere stesso della Chiesa. Non foss’altro perché, come notava una decina d’anni dopo la chiusura del Vaticano II un illustre allievo di Congar, il padre Legrand, procedendo in maniera empirica più che prescrittiva, il Concilio “ha creato o confermato le conferenze episcopali, i consigli presbiterali, dei consigli per l’apostolato dei laici e dei consigli pastorali”.

 

Giova tuttavia rammentare che nelle diverse fasi di ermeneutica e recezione del Vaticano II lo sviluppo teologico della tematica ha fatto registrare momenti diversi. Solo per fare un esempio che coinvolge la teologia italiana, quando nel 2005 l’Associazione Teologica Italiana dibatteva della sinodalità nel suo XIX congresso5, la scelta tematica poteva apparire, nel contesto, piuttosto profetica e ad alcuni persino “politicamente non corretta”.

 

1. L’impulso del recente magistero e la possibilita di una chiarificazione concettuale

 

Il fatto che a più di mezzo secolo dal Vaticano II il tema della sinodalità sia diventato cosi centrale e certamente dovuto all’impulso che proviene dal recente magistero. Già nel documento programmatico del suo pontificato, papa Francesco vi fa infatti un accenno, quando al n. 246, nel contesto di una riflessione che ha per tema il dialogo ecumenico, sprona i cattolici ad accogliere come dono ciò che lo Spirito ha seminato anche in altre Chiese; e, facendo un esempio che riguarda il dialogo con i fratelli ortodossi, dichiara che “noi cattolici abbiamo la possibilità di imparare qualcosa di più sul significato della collegialità episcopale e sulla loro esperienza della sinodalità”.

 

E tuttavia soprattutto nel rilancio della tematica conciliare del sensus fidei che, sempre nella Evangelii gaudium, Francesco stimola implicitamente la Chiesa e la riflessione teologica sulla via della sinodalità.

 

Nella maniera più esplicita possibile e teologicamente più densa, sarà pero il discorso pronunciato in occasione del 50° anniversario dell’istituzione del sinodo dei vescovi ad imprimere una “nuova marcia”, per cosi dire, alla stessa riflessione e produzione teologica sul tema.

 

Nell’occasione, Francesco diceva che quello della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio ed affermava che si tratta di una “dimensione costitutiva della Chiesa”. Tale discorso insieme agli stimoli offerti da Francesco in diverse altre circostanze hanno favorito, sul piano della vita ecclesiale, la scelta del tema della sinodalità per la celebrazione del sinodo dei vescovi e, per quanto riguarda la Chiesa italiana, la decisione di avviare un cammino sinodale; ed hanno fatto sì che la stessa Commissione Teologica Internazionale (CTI) si prefiggesse di offrire uno studio espressamente teologico sul tema.

 

Tra i suoi meriti, non deve sfuggire il tentativo di chiarificare che cosa si debba intendere con sinodalità: tanto più se si prende atto del fatto che nel profluvio di scritti di questi ultimi anni si rischia di utilizzare la parola quale “termine-ombrello”, con il forte pericolo di alimentare più la retorica che la rigorosa riflessione teologica.

 

Al n. 70 del documento della CTI, La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, si abbozza infatti una descrizione articolata della sinodalità quale dimensione costitutiva della Chiesa. Vi si afferma che la sinodalità designa anzitutto lo stile peculiare che caratterizza la vita e la missione della Chiesa, in cui si esprime la natura del camminare insieme e del radunarsi in assemblea del Popolo di Dio convocato da Cristo nella forza dello Spirito per annunciare il Vangelo. Da questo deriverebbe uno specifico modo di vivere e di operare, che si esprime nell’ascolto comunitario della Parola e nella celebrazione eucaristica, nella fraternità vissuta e nella partecipazione e corresponsabilità di tutto il Popolo di Dio, pur nella differenziazione dei ministeri e dei carismi, alla vita e alla missione della Chiesa. Al contempo, si dichiara giustamente come la sinodalità designi, in maniera più specifica e puntuale, i processi e le strutture in cui la natura sinodale della Chiesa si esprime, ai diversi livelli della vita ecclesiale; ed indichi, infine, anche gli eventi sinodali nei quali il Popolo di Dio sul piano locale, regionale o universale viene coinvolto dall’autorità competente e sotto la sua guida per operare un discernimento circa il suo cammino o questioni specifiche e per assumere delle decisioni in ordine all’evangelizzazione.

 

La chiarificazione offerta dal documento della CTI aiuta a meglio riconoscere come la sinodalità non sia un aspetto tangenziale della

Chiesa e della sua vita; ma manifesta, al contempo, come si tratti di

realtà complessa, non foss’altro perche fa riferimento alla vita profonda della Chiesa, alle sue strutture e ai suoi processi vitali, oltre che ad eventi specifici e puntuali della sua esistenza.

 

Proprio per questo, risulta decisivo coglierne le radici ecclesiologiche e, più profondamente, la portata teologica; così come appare urgente anche mettere in evidenza in che termini e in riferimento a quali questioni, la sinodalità continui a rappresentare una sfida per la ricerca e la riflessione teologica.

 

2. Radici teologiche

 

Com’era prevedibile, un apporto alla tematizzazione ed alla riflessione sulla sinodalità è giunto dagli studiosi del diritto canonico. Sulla scia del ricupero avvenuto nel Vaticano II della prospettiva della collegialità episcopale, tale speculazione si e per lo più impegnata a leggere (almeno nella sua prima fase) la sinodalità quale dimensione essenziale del ministero episcopale e solo in termini analogici qualcosa riguardante il ministero dei presbiteri e l’apporto dei cristiani laici all’interno della Chiesa locale. Un pensatore rappresentativo di tale visione come Eugenio Corecco poteva perciò affermare: “la sinodalità, essendo la dimensione operativa della “communio ecclesiarum”, si realizza in senso proprio solo nell’esercizio del ministero episcopale.

 

[…] A livello della chiesa particolare essa si esprime, come partecipazione qualitativamente diversa della sinodalità episcopale, nell’attività dei presbiteri all’interno del presbiterio e come esperienza solo analogica nell’attività dei laici all’interno delle strutture sinodali proprie della comunità eucaristica”.

 

In una tale visione, la sinodalità sarebbe di fatto riducibile alla collegialità e sembrerebbe riguardare fondamentalmente il livello della communio ecclesiarum, mentre solo in termini analogici riguarderebbe la vita della Chiesa locale.

 

Come è facilmente deducibile da quanto espresso sopra, il tentativo di descrizione offerto dal documento della CTI, sulla base del contributo elaborato dalla riflessione teologica, va in direzione in parte diversa. Esso induce infatti a ricercare la radice della sinodalità nella realtà stessa del Popolo di Dio e, dunque, nella comune appartenenza alla Chiesa di tutti i cristiani, nella loro pari dignità e in una corresponsabilità, pur differenziata (anche a motivo del compito singolare dei ministri ordinati, oltre che dei diversi carismi), di tutti i credenti in Cristo; ed implica che la realtà della Chiesa locale sia il primo luogo concreto del darsi della sinodalità, nella consapevolezza – com’e ovvio – che non si dia Chiesa locale se non nella comunione delle Chiese. La sinodalità appare, così, quale realtà ben più ampia della collegialità (benché intrinsecamente collegata ad essa), coinvolgendo tutti i soggetti ecclesiali, inclusi evidentemente i pastori. Va precisamente in questa direzione la riflessione ecclesiologica di chi invita a vedere la circolarità virtuosa e imprescindibile esistente tra sensus fidei del Popolo di Dio e magistero. In un’analoga direzione orienta la prospettiva di chi radica la sinodalità nella natura carismatica della Chiesa, in forza della quale la totalità dei doni dello Spirito è rintracciabile nella totalità dei cristiani; il che comporta, di conseguenza, che si può discernere dove lo Spirito orienti la Chiesa solo nell’ascolto di tutti e in un atto di discernimento comunitario.

 

Tale visione si basa peraltro sulla consapevolezza che i carismi non sono riducibili a “doni straordinari”, ma sono doni di cui ciascun cristiano, in quanto unto dallo Spirito di Cristo, è beneficiario. Un orientamento simile può essere rintracciato nella posizione di chi, come Borras, legge la sinodalità in stretta correlazione alla corresponsabilità di tutti, in quanto si tratterebbe di due facce della stessa vita ecclesiale.

“Se la corresponsabilità battesimale designa una qualità dei battezzati in quanto individui – dice –, il concetto di sinodalità designa un tratto della Chiesa in quanto comunità”. In tal senso, può risultare utile a comprendere il nesso e insieme la distinzione tra corresponsabilità e sinodalità una delle possibili radici etimologiche del termine sinodalità nel greco profano, in base alla quale non si tratterebbe semplicemente di camminare insieme, ciascuno con il proprio passo, bensì di varcare insieme la stessa soglia, dunque di dimorare insieme, di riunirsi. “Applicato alla realtà ecclesiale, il concetto di sinodalità può così evocare l’esperienza di un cammino percorso in comune o più semplicemente il fatto di riunirsi, di tenere un’assemblea”: in vista, ovviamente, della realizzazione della Chiesa in un determinato luogo e, quindi, della trasmissione del Vangelo in un contesto preciso.

 

In una tale prospettiva si può parlare di sinodalità in senso stretto a proposito della Chiesa locale o particolare e, analogicamente, in riferimento alla comunità parrocchiale; mentre se ne parlerebbe in un senso largo per quel che concerne il livello della comunione delle Chiese e di raggruppamenti di Chiese.

 

I riferimenti fatti mostrano come la riflessione ecclesiologica tenda a radicare, pur con sfumature diverse, la sinodalità nella realtà stessa della Chiesa, così come viene ripensata sulla base del rinnovamento teologico novecentesco, di quello sedimentatosi nell’ultimo Concilio e rilanciato ed approfondito dalla speculazione ecclesiologica postconciliare.

 

Anche se – com’e anche ovvio che sia – lo stimolo immediato a ritrovare le radici della sinodalità nella natura stessa della Chiesa possono provenire dalla cultura attuale, ormai profondamente segnata da una “mentalità democratica”.

 

Difficilmente si rintraccia, tuttavia, una riflessione preoccupata di mostrare più profondamente la portata propriamente teologica, per così dire, della sinodalità. Si potrebbe dire che, nelle proposte suddette, la questione specificamente teologica, benché non sia certamente assente rimane però di fatto implicita: con il rischio che, alla distanza, non venga più percepita e che la stessa sinodalità venga intesa in termini assai diversi da quanto rappresenta.

 

Eppure, la prima grande svolta conciliare in chiave ecclesiologica è consistita nel connettere la Chiesa al comunicarsi libero e gratuito di Dio, permettendo dunque di percepirla come strutturalmente relata a Cristo e al Dio trinitario che in Lui si e comunicato. Essa è anzitutto effetto del comunicarsi di Dio; solo in quanto tale, la Chiesa è a servizio della diffusione del Vangelo. La sinodalità dovrà pertanto essere anche letta quale espressione del modo in cui Dio si intrattiene con gli uomini, laddove si realizza la Chiesa; oltre che in relazione a ciò che Dio opera quando interviene nella storia.

 

In questo orizzonte costituisce un sentiero da seguire quello segnalato da Giuseppe Ruggieri. Appellandosi ad uno dei testi tradizionalmente richiamati parlando di sinodalità, ovvero il passo di Mt 18,20 che contiene la promessa di Cristo di essere in mezzo a loro laddove due o tre discepoli sono riuniti nel suo nome, egli ha chiarificato come il cuore della sinodalità, a qualunque livello della vita ecclesiale, sia da rintracciare proprio in tale repraesentatio Christi in forza dell’agire dello Spirito, che crea l’accordo. Nel presupposto che sinodo e concilio sono, nella tradizione del pensiero cristiano, termini spesso intercambiabili, Ruggieri nota infatti: “alla base della consapevolezza sul valore particolare di un concilio, documentabile attraverso una moltitudine di documenti, sta la convinzione espressa nel detto […] di Mt 18,20: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, la sono io, in mezzo a loro”. Ciò che fa la specificità di un autentico concilio (sia esso di alcune chiese o di tutta la chiesa) non e in primo luogo la sua “infallibilità” (giacché essa non e un dato a priori, ma derivato e storicamente secondario), ma l’effettiva presenza di Cristo e del suo Spirito. Questa presenza ha come suo effetto proprio, e ultimamente rilevante, la sinfonia, l’accordo. E’ l’accordo ciò che permette di parlare di una presenza dello Spirito e, conseguentemente, di un permanere nella verità, di una indefettibilità”. In qualunque evento sinodale e a qualunque livello della vita ecclesiale, quanto si realizzerebbe e precisamente tale ripresentarsi di Cristo, vivo nello Spirito, che crea la sinfonia tra i cristiani.

 

Pur nella diversità, esiste perciò una continuità tra l’assemblea liturgica – e specificamente eucaristica – e l’assemblea sinodale. In entrambi i casi si realizzerebbe un ripresentarsi di Cristo in mezzo ai suoi; e non è certo casuale il fatto che ogni importante evento sinodale sia tradizionalmente incastonato in una celebrazione liturgica, specie la sinassi eucaristica.

 

Si può tuttavia osare spingersi persino oltre, proprio assumendo di nuovo con serietà il nesso intrinseco che lega la Chiesa al Dio che si è comunicato escatologicamente in Cristo, per domandarsi se nella sinodalità ecclesiale sia impresso e, dunque, rintracciabile un rimando allo specifico volto di Dio li rivelatosi. Infatti, il ripresentarsi di Cristo vivo nello Spirito, creando l’accordo, dovrà anche esprimere qualcosa quanto meno del modo in cui Dio si intrattiene con gli uomini. A tal proposito, si può ancor oggi fare tesoro di ciò che Congar rilevava – pur con un linguaggio che tradisce una riflessione teologica ancora troppo figlia del suo tempo – a proposito dell’unità nella Chiesa non riducibile ad uniformità. Le sue osservazioni sono assai utili per cogliere un aspetto teologicamente rilevante della sinodalità quale dimensione costitutiva della Chiesa. Diceva il teologo francese: “La riduzione dell’unità all’uniformità è esclusa sia dalla parte di Dio, causa efficiente suprema della Chiesa, sia da quella degli uomini, soggetto recettore o causa materiale di questa stessa Chiesa: Chiesa che risulta de Trinitate e ex hominibus. Da parte di Dio, perche a) egli non agisce per necessità, come una causa fisica determinata, ma liberamente. Si tratta della sua grazia; egli distribuisce come vuole i suoi doni. b) Egli è trascendente e non può essere rappresentato e riflesso, sia pure nella sua unità, se non da una pluralità di partecipazioni, in una diversità che concorre a una unità più ricca. Da parte degli uomini, perché Dio non li tratta come cose, ma come persone libere quali sono. Si tratti delle persone individue o di quelle personalità morali cosi reali come sono le comunità umane naturali o i popoli, i doni di Dio, anche supponendoli identici alla sorgente e nella loro natura profonda, sono ricevuti in soggetti vivi, che hanno una storia, un’anima propria. Una tale persona o quasi-persona reagisce ai doni di Dio”.

 

Si può chiosare l’osservazione di Congar e dire che la sinodalità, ovvero il camminare insieme di tutti i cristiani nella Chiesa verso Cristo, che comporta il riunirsi in assemblea ai diversi livelli della vita ecclesiale, l’ascolto reciproco, il dialogo, il discernimento comunitario, la creazione del consenso e l’assunzione di una decisione in una corresponsabilità differenziata, sia il modo in cui, nella mediazione ecclesiale, si esprime il volto del Dio trinitario in cui non solo c’e spazio per quell’alterità data dal soggetto collettivo Chiesa, ma anche per quell’alterità che ciascun appartenente ad essa e è rappresenta. La sinodalità è dunque questione ecclesiologica in quanto, anzitutto, è questione teologica. Essa è dimensione costitutiva della Chiesa quale espressione, nella mediazione ecclesiale, della modalità singolare con cui Dio si rapporta agli uomini.

 

In essa si manifesta anzitutto che Dio si comunica liberamente nel dono del suo Spirito; non in un atto puntuale, che avviene una volta per tutte, bensì in modo continuo e dinamico, nell’esistenza storica dei cristiani e nel loro ripetuto radunarsi. E’ quanto è impresso nella stessa dinamica sacramentale della Chiesa: se il battesimo e la confermazione, nel loro essere irripetibili, esprimono l’irrevocabilità del dono dello Spirito, l’eucaristia – nella sua reiterabilità – dice che tale offerta è dinamica ed è dovuta al Padre che, liberamente e volontariamente, fa incessantemente dono dello Spirito di Cristo, che fa esistere la Chiesa. Lo stesso avviene, in altro modo, nella dinamica sinodale della Chiesa, a tutti i livelli della vita ecclesiale e in tutte le sue dimensioni.

 

In ciò si palesa, peraltro, che la stessa donazione d’origine non può essere pensata se non nei termini dell’autodonazione del Padre, volontaria e libera, in cui è generato il Figlio e spirato lo Spirito. Al contempo, nella sinodalità e impresso, nella Chiesa, il volto del Dio che fa spazio alla liberta umana, che è chiamata a corrispondere al dono dello Spirito, interagendo, pur in modo asimmetrico, con Lui. Nella corresponsabilità, pur differenziata, che caratterizza la sinodalità si manifesta dunque il volto del Dio trinitario che si autocomunica donandosi liberamente e incessantemente e che è capace di fare spazio ad ogni singolo uomo, nella creativa risposta con cui, lungo la storia, egli reagisce al dono divino: una risposta che non può che essere partecipazione responsabile all’universale volontà salvifica di Dio. Al contempo, nella sinodalità si palesa quanto si realizza nell’agire libero e volontario di Dio: la raccolta dell’umanità, per la quale la personificazione di ciascuno avviene nella unificazione in Cristo, facendo corpo con Lui e in Lui, in tensione escatologica. La dinamica sinodale, in cui lo Spirito agisce creando la sinfonia e l’accordo, e dunque quella più propria in vista dell’evangelizzazione, in quanto evangelizzare non può essere altro che rendere disponibile per altri la possibilità di venire unificati in Cristo, in una unità che è la massima personificazione dell’uomo. Potrebbe giovare, a tal fine, rammentare come nel magistero conciliare, laddove la Chiesa è vista quale sacramento, la strumentalità della stessa è strettamente congiunta e dipendente dal suo essere anzitutto il segno di quanto Dio realizza nella storia: aspetto non sempre messo a tema nel molteplice uso che si è fatto della categoria della sacramentalità applicata alla Chiesa e neppure sempre sufficientemente apprezzato in molte proposte ecclesiologiche imperniate attorno alla prospettiva dell’estroversione e della “Chiesa in uscita”.

 

3. Sfide per il pensare teologico

 

Se esiste la necessità di riguadagnare le radici teologiche della sinodalità, non e meno impellente l’urgenza di richiamare alcuni compiti che si impongono alla riflessione teologica, specie se si pensa alla sinodalità nell’orizzonte della Chiesa che abita oggi l’Occidente. E’ abbastanza comune, tra gli ecclesiologi, segnalare le mancanze del diritto canonico su questi temi (benché ci siano già molte norme, capaci di favorire ben altri processi sinodali rispetto a quelli in atto, che rimangono lettera morta); molto meno comune e indicare il contributo che ci si può attendere dalla teologia; quasi che la riflessione teologica avesse già esaurito il suo compito.

 

3.1. La difficolà di chiarificare chi siano i “tutti”

 

E’ diventato comune affermare come l’esercizio della sinodalità, a qualunque livello della vita ecclesiale, preveda sempre l’articolata partecipazione di tutti, di alcuni, di uno. Se si prende, ad esempio, il caso di un sinodo diocesano, ad un momento di coinvolgimento di tutti i cristiani dovrebbe far seguito l’assemblea sinodale, che prevede la partecipazione di alcuni e dentro la quale c’e l’uno, il vescovo, con il suo compito unico di presiedere e garantire l’apostolicità e la cattolicità delle decisioni assunte.

 

In ordine al coinvolgimento degli alcuni, permane effettivamente un problema rispetto al quale la riflessione comune tra ecclesiologi e canonisti potrebbe certamente giovare. Se negli “organismi sinodali” è sempre garantito, dalla norma vigente, il compito peculiare dell’uno, non sembrano esistere norme capaci di garantire la presenza e la specifica autorità di alcuni, sulla base dei carismi di cui sono beneficiari.

 

Eppure, pensando a concreti eventi sinodali, si dovrà ammettere che in relazione a ciò che rappresenta l’oggetto del confronto e della decisione da assumere, sarà necessario determinare un’autorevolezza diversa di quei cristiani che hanno una competenza in relazione a ciò di cui si sta trattando. Se non si leggono infatti i carismi in termini “soprannaturalistici” e se se ne riscatta la normalità sulla base del fatto che ciascun cristiano è unto dallo Spirito di Cristo, si dovrà ammettere che il carisma dovrà avere a che fare anche con le competenze di cui i cristiani sono detentori, messe a disposizione per la glorificazione di Dio e per il servizio dei fratelli. A livello della presente questione, ciò avrà come conseguenza che a seconda dell’oggetto di cui si sta trattando si dovrà determinare un’autorevolezza maggiore di quei cristiani che su quel tema hanno una specifica competenza: ma ciò – occorre riconoscerlo – rimane ancora oggetto di ricerca e studio, per teologi e canonisti insieme. In un sinodo diocesano, ad esempio, si dovrà determinare, anche nella concretezza e in modo normato, un’autorevolezza diversa di quei cristiani che hanno una competenza economica, se oggetto del discernimento sono le scelte da fare in ordine ad una revisione del bilancio di una diocesi; cosi come sarà necessario che sia rispettata l’autorevolezza di quei cristiani che hanno competenza teologica, catecheticha o pedagogica, nel caso in cui fosse in questione, invece, il modo di trasmettere la fede ai giovani.

 

Questione ancora più delicata e che investe la riflessione teologica è a chi ci si riferisca quando si parla dei tutti da coinvolgere. Laddove si evoca il principio, sopra richiamato e ancora assunto dalla Chiesa medievale, secondo cui quel che riguarda tutti deve essere trattato ed approvato da tutti, non si può dimenticare che altra cosa è riferirsi a tale assunto in un’epoca, come quella medievale, di cristianità, tutt’altra cosa e farlo in contesto di fine della cristianità, quale e la nostra: in una situazione nella quale, però, si porta ancora la forte eredita della cristianità che fu. Per esemplificare sulla base del caso italiano, è evidente che la stragrande maggioranza degli italiani risulta ancora formalmente cristiana ed ha ricevuto i sacramenti dell’iniziazione cristiana. Rappresentano tuttavia una minoranza coloro che hanno assunto la libera e consapevole decisione di essere e vivere da cristiani. Chi sono, pertanto, i tutti che si dovrebbero ascoltare e coinvolgere in un normale processo sinodale? Ha lo stesso valore, in termini di appartenenza ecclesiale e dunque in relazione ad una corresponsabilità in ordine all’esserci e alla missione della Chiesa, il fatto di aver scelto di corrispondere, nella fede vissuta, al dono ricevuto nei sacramenti, o l’aver deciso di non corrispondervi o il rimanerne indifferenti? E che cosa significa in un contesto di questo genere mettersi in ascolto, come Chiesa, del cosiddetto sensus fidei?

 

La difficoltà di affrontare una tale questione, anche a motivo del fatto che nessuno si può ergere a giudice della fede altrui, non può significare fingere che il problema non ci sia o che sia già risolto. Nè

pare di aiuto quella retorica che sta facendo della sinodalità il termine con cui si vorrebbe indicare il cammino in comune con tutti gli uomini di buona volontà che i cristiani sarebbero invitati a compiere. E’ chiaro, infatti, che su questioni che riguardano tanto i credenti come i non credenti o gli appartenenti ad altre confessioni religiose, i cristiani sono invitati a cercare e stabilire un dialogo con tutti: è tuttavia fuorviante nominare tale dialogo con il termine sinodalità che, tradizionalmente, si riferisce invece alla vita della Chiesa.

 

Allo stesso modo, c’e da domandarsi se sia di aiuto a chiarificare chi siano oggi i tutti da coinvolgere, la distinzione fatta da alcune proposte teologiche di una presunta fede di chi avrebbe seguito Gesù durante il suo itinerario terreno rispetto a quella di chi, invece, dopo averlo incontrato, sarebbe ritornato alla propria casa. E’ evidente lo sforzo di affrontare, con tale distinzione, la situazione attuale in cui, rispetto alla totalità dei battezzati, è una minoranza quella di chi partecipa in modo convinto e scelto alla vita ecclesiale. Sul piano ecclesiologico, tuttavia, c’e da domandarsi la pertinenza di una tale distinzione. La Chiesa, infatti, non può essere compresa a partire dal ministero di Gesù durante la sua esistenza terrena; salvo ricadere nella lettura apologetica della fondazione della Chiesa ad opera del Gesù storico, ormai ampiamente messa in discussione da importanti studi biblici oltre che da una riflessione ecclesiologica che fa tesoro della svolta conciliare, che invita a leggerla anzitutto quale mistero. La Chiesa deve se stessa a tutto il mistero di Cristo che si manifesta sommamente nella sua Pasqua; ed essa è perciò luogo della presenza del Risorto, che raccoglie in se l’umanità e nel quale gli uomini si lasciano liberamente inserire. Non risulta dalla lettura degli Atti degli Apostoli, dall’epistolario paolino o da altri scritti del corpus neotestamentario che, a proposito della Chiesa in cui vive il Risorto, si operi una distinzione tra quanti vivrebbero la fede “da vicino” e quanti invece la vivrebbero “da più lontano”. Si tratta sempre e soltanto di cristiani e di seguaci del Signore Risorto.

 

Allo stesso modo, non sembra essere risolutivo della questione che qui si sta ponendo il rimando al richiamo di papa Francesco ad ascoltare tutti e non solo i più ossequiosi e compiacenti (cfr. Evangelii gaudium, 31). Ne pare esserlo quello alla Regola di san Benedetto nella quale, per le questioni che coinvolgono tutto il monastero, si invita ad ascoltare anche i più giovani, perche attraverso di essi si può esprimere la voce dello Spirito. Tali richiami sono infatti un monito a non fare distinzioni tra quanti appartengono alla Chiesa, nella convinzione e nella volontà di volervi appartenere. In tal senso, è chiaro che vanno ascoltati proprio tutti: coloro che sono più avanti nel cammino cristiano e quelli che vi si affacciano, quanti partecipano alla vita ecclesiale con incarichi più direttamente intraecclesiali e coloro che vivono il loro essere cristiani nelle “realtà del mondo”… Tutto ciò non aiuta ancora a risolvere le problematiche che si sollevano pensando ad una Chiesa che vive in epoca di post-cristianità, portando però l’eredità dell’epoca della cristianità. Volendo esemplificare anche in questo caso, dovrà essere considerata come identica la situazione di un giovane che si affaccia alla fede con il desiderio autentico di camminare nella sequela del Signore e quella di chi, invece, pur battezzato, si rivolge alla comunità dei cristiani una o due volte nell’anno con la pretesa di avere dei servizi, allo stesso modo in cui ci si rivolge ad un ufficio pubblico?

 

Non dovrebbe essere nemmeno in discussione il fatto che anche in questo secondo caso è auspicabile che il cristiano in questione venga trattato con tutta la delicatezza ed accoglienza possibile: ciò significherà tuttavia che dovrà essere considerato corresponsabile delle decisioni della vita di una comunità cristiana o addirittura di una Chiesa alla stessa stregua del giovane suddetto? E’ su questioni di questo genere che c’e necessità di un ulteriore scavo teologico: nella consapevolezza della difficoltà data dalla necessità di evitare ogni elitarismo e, come detto, dall’impossibilità di giudicare la fede altrui.

 

3.2. Chiesa e cultura-ambiente

 

L’esempio appena fatto offre l’occasione di segnalare un secondo ambito di ricerca teologica. Si tratta della rivisitazione, in tutte le implicazioni che ciò può avere nelle diverse discipline teologiche, del rapporto Chiesa-cultura. Anche laddove si dà per assodato il guadagno, sedimentatosi nella svolta conciliare, di non guardare alla Chiesa come se fosse di fronte al mondo contemporaneo, bensì in esso, non e così scontato che si pensi poi alla Chiesa come strutturalmente immersa in una determinata cultura e da essa permeata: rimanendo in uno stato di discernimento continuo di quanto, di tale cultura, può venire assunto e di quanto potrebbe risultare invece addirittura antievangelico e richiedere incessante conversione. C’e sempre il pericolo di ritenere che la Chiesa sia totalmente estrinseca alla cultura in cui vive; che, pertanto, nulla della cultura dominante la tocchi o la determini; e che si possa pensare all’inculturazione come qualcosa di successivo all’esserci

stesso della Chiesa.

 

Sul piano della questione che ci sta interessando, può essere a tal proposito osservato come la cultura tipica di cristiani occidentali abituati a vivere nel contesto delle moderne democrazie sia stata e continui ad essere determinante nel riscoprire il valore della sinodalità per la vita della Chiesa. Non si può infatti ritenere che alcuni valori oggi apprezzati e sostenuti dai cristiani nelle società democratiche – quali la pari dignità di tutti i cittadini o la possibilità di partecipare, in un qualche modo, alle scelte che riguardano tutti – cessino di essere un valore all’interno della Chiesa. In ogni caso, i cristiani – che ne siano consapevoli o no – portano la mens democratica, di cui e permeata la società occidentale, al di dentro della Chiesa, cosi come altri aspetti della cultura che li contrassegna. E i valori tipici delle società democratiche finiscono per rappresentare lo stimolo a ritrovare, apprezzare e riattivare, nella Chiesa stessa, proprio la dimensione della sinodalità che la caratterizza; oltre che a riscoprire come solo una Chiesa sinodale possa essere all’altezza della missione che è chiamata a svolgere nel mondo attuale.

 

E’ anche in questo senso che va colto l’invito di papa Francesco a vedere nella sinodalità il cammino che Dio si aspetta per la Chiesa nel terzo millennio. Tuttavia, non si può negare che anche aspetti della cultura oggi dominante non propriamente evangelici possano finire con il determinare oltremodo quel che si intende di fatto per sinodalità e quanto ci si aspetta da essa, se non si rimane in uno stato di vigile discernimento e, come detto, di conversione continua. In particolare, non e chi non veda come, insieme a molti aspetti apprezzabili, la cultura attuale appare fortemente contrassegnata dall’imporsi di una logica individualistica, se non anche narcisistica. Fa certamente riflettere, in tal senso, il paradosso messo in luce da Gauchet a proposito proprio delle moderne democrazie: esse sono l’esito ultimo dell’“uscita dalla religione” e, pertanto, dell’emancipazione rispetto ad ogni prospettiva eteronoma; tuttavia, senza alcun riferimento “sacro” finiscono per entrare in una profonda crisi, alla quale oggi assistiamo nei Paesi occidentali. Una crisi che ha certamente a che fare anche con la concezione della libertà considerata come as-soluta – nel senso stretto del termine – e con l’imporsi di una logica dei diritti individuali che fanno sempre meno spazio a quelli sociali e a cui, soprattutto, non corrisponde mai alcun dovere. Fa ugualmente pensare l’analisi di Taylor, laddove egli considera quale esito dell’età secolare il fatto che ci si troverebbe in un’epoca postdurkheimiana e, soprattutto, dell’autenticità, che ha degli effetti consistenti anche sul piano del modo di vivere l’appartenenza religiosa: ciascuno finisce infatti per ricercare il proprio individuale benessere, il proprio individuale itinerario spirituale, quanto risponde alle proprie presunte esigenze... In una tale cornice si inscrive la prospettiva di un “pluralismo illimitato”, secondo la stessa dicitura di Taylor.

 

La teologia è chiamata ad offrire il suo servizio critico rispetto all’assunzione, all’interno della Chiesa, di tali aspetti della cultura dominante.

 

Sulla loro base, esiste il grande rischio di scambiare per sinodalità – come qua e là appare evidente – la possibilità di creare delle lobbyes di potere, di far valere delle logiche rivendicative, di affermare diritti individuali senza assunzione di responsabilità nei confronti dell’altro, di favorire raduni in cui l’agenda può essere dettata più dalle questioni che si agitano nella tardo-moderna cultura occidentale che dalle esigenze di una Chiesa che, dentro questo mondo, voglia continuare ad essere se stessa e ad offrire il Vangelo. Se, infatti, la sinodalità ha a che fare con l’ascolto della voce dello Spirito il cui effetto è la creazione dell’accordo, è evidente che ciò implica una partecipazione di cristiani che vigilino costantemente contro aspetti della cultura dominante che possono essere strutturalmente antitetici ad una dinamica sinodale.

 

Tutto ciò può essere di stimolo perche la teologia chiarifichi sempre meglio quali siano i requisiti, ad esempio, di una “spiritualità sinodale” da promuovere e far crescere nella Chiesa, che sia capace – tra l’altro – di offrire luce sulla gestione dei conflitti, nella chiarificazione di quali siano le condizioni per le quali essi rimangono nell’alveo di un’autentica sinodalita. Allo stesso modo, tutto ciò può essere, ad esempio, di stimolo perche la teologia chiarifichi e prospetti sempre meglio il tipo di soggettualità implicato nella sinodalità ecclesiale. In tal senso, dentro una cultura nella quale ci si dibatte tra l’affermazione (in certi fronti) di un individualismo a-relazionale e l’affermazione della perdita (in altri fronti, come in certi modi di affrontare la questione ecologica) di ogni soggettualità, appare promettente la prospettiva di una costitutiva relazionalità della soggettualità.

 

3.3. Un ministero più sinodale

 

Può essere utile, infine, accennare in maniera estremamente sintetica ad un ultimo ambito di ricerca: quello relativo al ripensamento del ministero ordinato nella e per la Chiesa.

 

L’ultimo Concilio ha permesso un ricupero decisivo della collegialità episcopale, cum et sub Petro. Tuttavia, a fronte di ciò, ha solo messo delle premesse per il ripensamento del ministero all’interno delle Chiese locali e, per di più, con affermazioni talvolta difficilmente armonizzabili. L’ecclesiologia post-conciliare si è spesso concentrata a sviluppare le problematiche che sono state dibattute, fino alla fine, durante l’iter conciliare, mostrando anche opportunamente come si debba più profondamente ancorare la collegialità episcopale alla communio ecclesiarum. Si tratta di un aspetto decisivo in ordine alla sinodalità, perché una collegialità in cui ci siano molti vescovi che non “rappresentano” delle Chiese da essi presieduti costituisce un vulnus ad una sinodalità che, per essere autentica, non può che realizzarsi anzitutto nelle diverse Chiese locali.

 

Tuttavia, solo in casi eccezionali gli ecclesiologi hanno sviscerato altri problemi che i testi conciliari lasciano aperti. Uno di essi e il fatto che il ricupero della sacramentalità dell’episcopato sia avvenuto secondo modalità che rischiano di isolare oltre modo il vescovo dallo stesso suo presbiterio e dai diaconi: favorendo un’interpretazione del ministero episcopale, quale pienezza del sacramento dell’ordine, nei termini di un ministero che assomma in se anche il ministero presbiterale e diaconale. Di fatto e l’interpretazione che ha finito con l’imporsi e che non aiuta certo ad immaginare un ministero ordinato che abbia in qualche modo una forma più sinodale, anche all’interno della Chiesa locale: nella imprescindibilità, sempre ed ovviamente, del ministero singolare del vescovo. Ciò comporta, soprattutto, che anche il ministero dei presbiteri venga per lo piu ugualmente concepito quale ministero solitario e tendenzialmente “monarchico”.

 

Alla teologia spetta il compito di ripensare – sulla base peraltro di stimoli che sono rintracciabili nello stesso Vaticano II – lo specifico ministero del vescovo; e di sviluppare i germi di una teologia del presbiterio, presenti essi stessi nei testi dell’ultimo Concilio, nella linea di un soggetto collettivo che include lo stesso vescovo, come colui che lo presiede. Ciò potrebbe prospettare un ministero per la stessa Chiesa locale in termini piu sinodali, in analogia a quel che avviene con la collegialità dei vescovi cum et sub Petro sul piano della Chiesa universale: ferma restando, ovviamente, la differenza data dal fatto che nel caso della collegialità anche il Papa e vescovo, mentre nel caso del presbiterio esiste una differenza di grado tra presbiteri e vescovo.

 

Alla riflessione teologica spetta altresì di chiarificare sempre di più e meglio la stessa teologia del diaconato. Ci sono infatti delle potenzialità, in ordine all’attuazione del ministero ordinato all’interno di una Chiesa, nel fatto che esista un grado del ministero non sacerdotale, come e il diaconato. Una di esse va senz’altro nella linea di poter prospettare un ministero più sinodale: nel senso qui del darsi di un ministero che è uno ed è però strutturalmente provvisto di ministerialità realmente diverse al suo interno.

 

4. Conclusione

 

La sinodalità non è certo un’invenzione della Chiesa del nostro tempo. Essa caratterizza la vita ecclesiale, quale sua dimensione costitutiva.

 

Nell’arco della storia, tuttavia, la sinodalità è stata concepita e realizzata in modi assai diversi, anche in relazione alla visione ecclesiologica imperante. Per questo non si può che concordare con chi richiama l’analogicità  del concetto.

 

Se è cosi, la riflessione teologica non può sentirsi esente dal dovere di svolgere il proprio compito, nel momento in cui una tale esigenza riemerge prepotentemente e dei concreti cammini sinodali sono avviati. Ad essa spetta di richiamarne il fondamento teologico, al fine di evitare che la sinodalità si riduca a mera dimensione sociologica ed organizzativa. A tal fine, la teologia e chiamata ad offrire il suo contributo critico per evidenziare quanto della cultura contemporanea costituisce uno stimolo a riscoprire la sinodalità nella Chiesa, quanto può comprometterne invece il valore evangelico e quali aspetti, dentro l’attuale contesto ecclesiale, domandano di essere ormai precisati.

 

In questo, la teologia attuale non può semplicisticamente richiamare quanto evidenziato alcuni decenni or sono: perche, nel frattempo, la Chiesa si trova ad abitare una cultura profondamente mutata; e ripetere stancamente quanto espresso decenni or sono potrebbe paradossalmente contribuire ad alimentare le retoriche, invece che tentare di contenerle.

 

* Articolo con note sulla Rivista "Teologia" nr. 46 2021