di Antonio De Caro*
Nell’epoca post-cristiana, in cui le chiese si svuotano, è ancora possibile proporre una riflessione sull’Eucarestia? La fede e la liturgia possono incontrare uomini e donne di oggi e di domani solo se riescono a dialogare con loro “per la strada”, cioè nei contesti concreti dove si svolgono le loro vite e dove nascono le loro domande di senso e il loro bisogno di conforto e speranza. Il saggio di Paolo Cugini L’Eucarestia domani. Inculturazione e inclusività della liturgia (Cantalupa, TO, Effatà 2023), pertanto, si propone il disvelamento dell’autentico tesoro d’amore che Gesù ha nascosto nelle parole dell’ultima cena (p. 7).
A differenza dei sinottici, il Vangelo di Giovanni non rappresenta la benedizione sul pane e sul vino, fatta da Gesù durante l’ultima cena, ma la scena della lavanda dei piedi, che porta alla luce il profondo significato dell’Eucarestia: essa si configura come una coerente scelta di amore che Gesù fa “fino alla fine” invitandoci a seguire il suo esempio. Ricevere l’Eucarestia vuol dire rendere proprio questo sguardo di misericordia che alimenta l’impulso verso il servizio vicendevole. Non si tratta del “premio dei perfetti”, ma del nutrimento per continuare il viaggio, senza abbattersi di fronte alle difficoltà, e prendersi cura gli uni degli altri. Di conseguenza, non può che rivolgersi a tutti e tutte, in un abbraccio di inclusione cui sono ispirate pagine meravigliose (pp. 47-59): Gesù intendeva demolire la “religione del Tempio” con i suoi pregiudizi e i suoi privilegi per mettere al centro l’ascolto delle persone e la loro ricerca di amore.
Ormai nessuno può più credere o praticare una fede come precetto, ma solo per una sincera motivazione etica e spirituale. È giunto il momento che la fede perda la sua connotazione metafisica per diventare ermeneutica della vita in cui il soggetto umano sia pienamente ascoltato, coinvolto, liberato. Ma per questo è necessario che la liturgia sia attenta alla vita concreta del presente, valorizzando la comunità dei credenti come popolo di Dio: è, di fatto, il messaggio del Concilio Vaticano II.
L’Eucarestia ha senso solo nel contesto della vita comunitaria, in cui i battezzati condividono la dignità sacerdotale e la chiamata universale alla santità. Da questa consapevolezza deriva la necessità che il popolo di Dio sia attivamente coinvolto nella celebrazione. Gesù ci consegna il suo corpo, cioè la sua umanità che si rende visibile con la sua fatica e la sua passione per le relazioni con le persone che incontrava “per la strada”. Il corpo e il sangue di Cristo sono il segno del suo desiderio di entrare in comunicazione con gli esseri umani e di donarsi ai poveri di ogni genere, abitando le periferie e i frammenti esistenziali, nella consapevolezza che è proprio in questi frammenti che il Signore ha nascosto la sua grandezza (p. 32). “Prendete e mangiate, prendete e bevete” equivale allora ad assimilare questo modo di essere di Gesù per sfamare il bisogno dell’uomo.
La liturgia, quindi, non può più limitarsi a essere una devozione individuale. Nela visione tradizionale, triste retaggio del Concilio di Trento, prevale l’idea del sacrificio di Cristo, vittima immolata a causa dei nostri peccati. In questa visione i sacerdoti costituiscono i mediatori della Grazia: possiedono uno status superiore e meritano una posizione gerarchica separata. L’apparenza esteriore deve veicolare il senso del sacro, inteso come dimensione sovraumana. Si tratta di una interpretazione ritualista del sacramento, che rimane distante dalla vita. Questa idea, inoltre, suscita nei fedeli un disperato senso di colpa o un atteggiamento di superbia, per cui essi possono accostarsi al sacramento solo se ritenuti degni e meritevoli. Ma nel mistero dell’incarnazione il Signore cerca la relazione con tutti per creare e rafforzare relazioni di fraternità. Infatti, nel modello esistenziale e comunitario i fedeli partecipano attivamente al culto e vi riversano la propria vita, ricevendo la vita di Cristo che costruisce la comunione.
Come per i discepoli di Emmaus (pp. 73-85: il passo evangelico vi è spiegato con poetica delicatezza), incontrare il Signore significa passare dalla tristezza alla gioia e al bisogno di annunciare il Risorto: ma ciò presuppone la disponibilità ad abbandonare le idee sbagliate su un Dio di potere e accettare la prospettiva di un Dio di amore. Da questo incontro nasce l’impulso a condividere il dono ricevuto: l’Eucaristia alimenta una spiritualità relazionale che diventa cura della comunità umana e cammino di liberazione (pp. 88-107).
Le comunità umane, come peraltro gli individui, non sono uguali in ogni tempo o in ogni luogo: per questo è necessario che l’annuncio e la liturgia assumano le caratteristiche culturali delle società a cui si rivolgono, in quanto l’inculturazione permette a una comunità di riconoscersi nella liturgia, superando il retaggio del colonialismo religioso. Rispettare le diverse civiltà umane vuol dire anche riconoscere che a ciascuna di esse lo Spirito ha elargito un tesoro, cioè una visione del mondo e una sensibilità che si approssimano al Vangelo. Proprio per questa ragione la Chiesa, recentemente, sta abbandonando la pretesa, cioè, che il Vangelo vada annunciato solo con i linguaggi e nelle forme di una certa identità storica, quasi fosse superiore alle altre, per valorizzare le culture di tutti i popoli e i loro specifici carismi, come ad esempio l’attenzione per l’armonia del creato e il rispetto della natura che connotano la mentalità dei popoli amazzonici.
L’Eucaristia ha oggi bisogno di una liturgia meno formale e più relazionale, in cui le comunità e i presbiteri locali possano partecipare nel modo più attivo e creativo possibile, per esempio riguardo la spiegazione della parola di Dio, la preghiera dei fedeli, la preghiera eucaristica. Di fronte alla scarsità di presbiteri, propone l’autore, le fedeli e i fedeli laici andrebbero invitati a ricoprire ruoli sempre più ampi, in forza del sacerdozio battesimale da cui nessuno è escluso, e che dovrebbe riconoscere anche alle donne, finalmente, piena dignità per il sacerdozio ministeriale ordinato.
Per essere fedeli al volto di Dio rivelato da Gesù di Nazaret i linguaggi della liturgia andrebbero cambiati. Dio non andrebbe più chiamato “onnipotente” ma “misericordioso”; l’idea dell’Eucaristia come “sacrificio” va sostituita dall’idea dell’Eucaristia come “dono” e sul senso del “peccato” dovrebbe prevalere quello della “responsabilità”. Misericordia, dono, responsabilità: questi sono i valori che l’Eucaristia dovrebbe alimentare nelle comunità cristiane, per far sì che poi i fedeli ne siano autentici testimoni nella vita quotidiana, prendendosi cura dell’umanità e soprattutto dei poveri e dei sofferenti di ogni genere, poiché la sofferenza è il luogo massimo dell’umanità (p. 130), che Gesù ha condiviso fino in fondo.
Il libro di Paolo Cugini sviluppa queste idee con una grande coerenza, che si coglie sia nell’articolazione interna sia nei riferimenti teologici, pastorali e liturgici, ispirati al Concilio Vaticano II, ai padri della Chiesa e soprattutto alle Sacre Scritture. Nello stesso tempo, l’autore cita e commenta con abbondanza il magistero di papa Francesco di cui viene evidenziata la continuità con il Concilio Vaticano II. Ma non deve sfuggire che il discorso tecnico, persino nelle pagine più accademiche, procede in modo fluido e comprensibile e attraverso un tono amichevole, talvolta persino sussurrato. La prosa, sempre concreta, raggiunge in alcuni punti melodie emotive e toccanti (come nelle pagine dedicate ai discepoli di Emmaus, alle donne, alle persone LGBT+) e, grazie all’alternanza di frasi brevi e lunghe, un ritmo lirico, quasi salmico. Questi effetti stilistici derivano anche dall’umanità dell’autore e alludono al suo personale dialogo con la presenza di Cristo nella vita delle persone: sono, a mio giudizio, il segno di un innamoramento che ciascuno e ciascuna di noi siamo chiamati a vivere.
*in “Adista” – Segni Nuovi – del 8 luglio 2023