Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Don Milani e la “santa arroganza” di insegnare la parola e poi la Parola

18/01/2024 00:00

ENZO BIANCHI

conferenze 2024,

Don Milani e la “santa arroganza” di insegnare la parola e poi la Parola

ENZO BIANCHI

A 100 anni dalla nascita del Priore di Barbiana una biografia inconsueta di Alberto Melloni. Racconta lo “straniero” in una famiglia ricca e colta, in una Chiesa che non lo capì subito

La Stampa - Tuttolibri  - 13 gennaio 2024

 

di Enzo Bianchi

“La Chiesa è sempre tentata di contraddire ciò che afferma, di difendersi, di obbedire alla legge che esclude, di identificare la verità con ciò che essa ne dice, di censire i «buoni» in base ai suoi membri visibili … La storia dimostra che la tentazione è reale … ma l’esperienza cristiana rifiuta radicalmente la riduzione alla legge del gruppo. Ciò si traduce in un movimento di superamento incessante. Potremmo dire che la Chiesa è una setta che non accetta mai di esserlo. È costantemente attratta fuori di sé da quegli «stranieri» che le sottraggono i suoi beni, che prendono sempre di sorpresa le elaborazioni e le istituzioni faticosamente acquisite, e nei quali la fede vivente riconosce, poco a poco, il Ladro – colui che viene”. Non sono il primo e di certo neppure sarò l’ultimo ad associare questo testo del gesuita francese Michel de Certeau alla figura di don Lorenzo Milani che è stato uno “straniero”, un “ladro” venuto nella notte in quella chiesa che pure lui amava visceralmente. Incarnava quella genuina istanza profetica che lo costrinse a vivere come un estraneo all’interno della sua stessa chiesa fiorentina, possedendo quella rara capacità di osservare la chiesa e il mondo cattolico con un occhio esterno che lo ha reso capace di vedere realtà che altri, troppo interni a quella mentalità, non riuscirono a vedere e a capire. Un suo compagno di seminario, Silvano Piovanelli, divenuto poi Cardinale di Firenze, lo riconobbe: “Non sempre, non subito ti abbiamo capito”; “il tuo chiarissimo anticipo, la nostra lentezza al futuro sono stati, forse il motivo della tua croce nella Chiesa”. Paolo VI lo aveva già detto di don Primo Mazzolari: “Era sempre avanti un passo a noi e noi facevamo fatica a seguire”. Destino dei profeti quello di essere sempre avanti, ho colpa degli altri di essere perennemente indietro?

A cent’anni dalla sua nascita, don Milani sembra destinato a restare ancora oggi perlopiù un estraneo, uno straniero e solo prendendo con decisione la distanza dai tanti clichés sulla sua figura e la sua opera è possibile conoscerlo veramente per quello che è stato. È quello che fa Alberto Melloni in Storia di μ. Lorenzino don Milani, edito da Marietti 1820. Lo chiama semplicemente μ con l’intento esplicito di smettere di chiamare don Milani come se fosse la marca di un prodotto, #donmilani come hashtag, ridotto a paladino della riforma della scuola, ad eroe della sinistra cattolica, a bandiera della scuola antiautoritaria, a emblema del Sessantotto con Lettera a una Professoressa. Sì, si è persa la forza radicale dell’esperienza umana, cristiana, presbiterale del Priore di Barbiana e per questo lo scopo (ampiamente raggiunto) di Melloni è esattamente quello di riconsegnare a don Milani la sua stranierità, attraverso la conoscenza della sua vita che permette al lettore di assumere quella giusta e doverosa distanza: “Un invito alla lettura della sua parola, della sua figura, senza attualizzazioni superficiali, lasciando la di stanza fra quel presente, altro dal nostro, che era suo”.  

Una distanza che è spesso mancata anche nelle tante celebrazioni per il centenario della sua nascita. Molti hanno denunciato la strumentalizzazione della figura di don Milani utilizzato come riempitivo del vuoto di idee politiche e, ancor peggio, come bisogno di autoassoluzione ecclesiastica che anche con il Priore di Barbiana, come con don Primo Mazzolari, ha mostrato l’immutata attualità delle parole di Gesù Cristo: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti, e dite: «Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nel versare il sangue dei profeti». Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di chi uccise i profeti” (Mt 23, 29-30). Di questi figli ce ne sono ancora troppi. 

  Milani nasce privilegiato e muore condannato. Privilegiato in una ricca e colta famiglia di origine ebraica dell’alta borghesia e dopo la morte condannato dallo Stato italiano per apologia e incitamento alla diserzione e alla disobbedienza civile. La gioventù di Lorenzo Milani è caratterizzata da una forte volontà di rottura con le origini famigliari e l’ambiente borghese nel quale è cresciuto. L’ebreo non più ebreo grazie a un battesimo di convenienza voluto dalla madre Alice per scampare alle leggi razziali, è uno scolaro dal rendimento scarso che esperimenta in prima persona l’inadeguatezza al sistema scolastico. Sarà il primo Milani a rifiutare l’iscrizione all’università. Forse è a partire da questa sua difficile esperienza dell’istituzione scolastica che maturerà in lui un’altra visione dell’insegnamento e della missione della scuola. 

Nella sua prima parrocchia di cui è cappellano, Calenzano, da vita alla scuola popolare e si inventa insegnante. Per le sue posizioni politiche più affini ad un laburismo cristiano che al cattolicesimo liberale di De Gasperi, don Milani è sempre più accerchiato dalla curia fiorentina e isolato dai suoi stessi confratelli. Scrive a don Renzo Rossi: “Ora che in preti più vicini, in perfetto accordo, m’hanno sbranato io appaio agli occhi della gente come un prete isolato e un prete cattolico isolato è inutile è come farsi una sega. Non sta bene e non serve a niente e Dio non vuole” (1° dicembre 1954). 

Don Milani viene promosso da cappellano a Priore di Barbiana, un angolo estremo e depopolato (41 abitanti) sul monte Giovi: senza acqua, corrente elettrica, posta e strada, “una nomina – osserva Melloni – che sembra fatta apposta per spezzarlo ovvero per spingerlo a un diniego da potergli rinfacciare per tutta la vita. Invece μ non rifiuta, anzi”.

Il primo atto a Barbiana è un gesto profetico: si compra una tomba, mostrando di capire il disegno profondo della storia di quella chiesa fiorentina di cui è parte. Don Milani fa dell’esilio un trono, reinventa una vita coltivando il suo progetto: dare la parola a chi la parola non ce l’ha, e questa sarà l’anima della scuola di Barbiana. In una lettera pubblica contro il ministro Paolo Rossi che aveva preso le difese del latino: “Ciò che manca ai miei [figlioli] è dunque solo questo: il dominio sulla parola. Sulla parola altrui per affermarne l’intima essenza e i confini precisi, sulla parola propria perché esprima senza sforza e senza tradire le ricchezze che la mente racchiude. Sono otto anni che faccio scuola ai contadini e agli operai e ho lasciato ormai quasi tutte le altre materie: Non faccio che lingua e lingue”.  Melloni commenta: “Nello scorrere antico del tempo di Barbiana μ coltiva il suo progetto: una traditio verbi che non è premessa sociale alla catechesi, ma condizione necessaria per l’annuncio del evangelico”.

Ormai vicino alla morte, don Milani scrive il suo testamento più vero Lettera a una professoressaOpera di scuola e non d’autore, la Lettera è l’atto supremo ed estremo di parola dei suoi ragazzi di Barbiana. Davvero, come osserva Melloni, “la santa arroganza della Lettera è la prova teologica che il popolo degli umiliati, il «meglio dell’umanità», fatto da coloro che attendevano di «essere fatti uguali» dalla scuola e a cui μ ha dato la parola”.