L’esistenza del cristiano e della Chiesa dev’essere plasmata dalla comunione, che non è opzionale
Pubblicato su: Vita Pastorale giugno 2024
di Enzo Bianchi
Fin dall’annuncio della celebrazione del Sinodo “sulla sinodalità” abbiamo cercato diseguire il cammino che si apriva, vivendo a volte momenti di gioia e di speranza, altre volte restando perplessi e critici. In questi mesi, i padri sinodali sono impegnati nello studio di alcuni temi emersi dai lavori sinodali e non si registrano eventi rilevanti da commentare. Mi sembra opportuno, quindi, dedicarmi ad alcuni contenuti fondamentali che vanno ricordati perché necessari a comprendere la sinodalità. Quest’ultima è uno stile, un modo di vivere la Chiesa, che oggi rappresenta un’urgenza assoluta e necessita sempre di rinnovamento. Ma la sinodalità ha uno scopo preciso, che è la comunione, la koinonìa della Chiesa.
Nell’autorevole relazione conclusiva del Sinodo dei vescovi del 1985 si disse che «l’idea centrale e fondamentale nei documenti del concilio Vaticano II doveva essere individuata nell’ecclesiologia di comunione». E questa constatazione fu ampiamente condivisa nella Chiesa cattolica. Ma un’autentica teologia è capace di generare anche una vita ecclesiale, perché un’autentica teologia è sempre spirituale, pneumatica, capace cioè di incidere sulla vita interiore e sull’esperienza del cristiano e della comunità. D’altronde, la parola koinonìa nel Nuovo Testamento indica innanzitutto la vita della Chiesa nata dalla discesa dello Spirito santo, quella vita “nello stesso luogo” (At 2,44), perseverante nella didaché (insegnamento apostolico), nella frazione del pane, nella preghiera. La parola koinonìa riassume le perseveranze essenziali alla Chiesa nascente e le conferisce un volto, sicché la Chiesa è rivelazione e manifestazione della koinonìa trinitaria, una koinonìa partecipata nella forza dello Spirito santo attraverso la comunione apostolica, una koinonìa che è compimento della salvezza annunciata dal Vangelo.
Quando noi cristiani diciamo “comunione”, designiamo, in primo luogo, il mistero eterno della comunione che è la vita stessa di Dio, ma diciamo anche che a questa comunione noi partecipiamo nel corpo di Cristo, nel sangue di Cristo: la koinonìa è dunque “essenza”, non “nota” della Chiesa. E se la vita del cristiano e della Chiesa è vita secondo lo Spirito santo, cioè originata dallo Spirito, e vita in Cristo, allora la spiritualità non può che essere spiritualità di comunione. In altre parole: la vita del cristiano e della Chiesa deve essere plasmata dalla comunione, la quale non è opzionale, non è una scoperta recente della teologia, ma realtà costitutiva. La koinonìa è forma Ecclesiae!
Certamente, la comunione dei cristiani tra loro e con Dio nel pellegrinaggio della Chiesa verso il Regno sarà sempre fragile, continuamente messa alla prova e sovente anche contraddetta; sarà una comunione che tende a essere piena ma che tale non sarà mai, se non nel Regno eterno. Del resto, vediamo che essa risulta ferita, offesa, già nella Chiesa degli inizi, come attesta il Nuovo Testamento; nondimeno, allora come adesso, nella Chiesa è custodita e perseguìta la volontà di Dio che incessantemente chiede la realizzazione della comunione visibile del corpo di Cristo, l’essere uno come il Padre e il Figlio sono uno.
Tuttavia c’è da chiedersi se i cristiani sono consapevoli di questa necessità radicale della comunione quale forma della loro vita e della vita ecclesiale. A questo riguardo, a me pare importante che nella Novo millennio ineunte Giovanni Paolo II sia riuscito non solo a indicare la forza della koinonìa, ma abbia chiesto una spiritualità della comunione, specificandola nelle sue manifestazioni riprendendo il lessico caro ai Padri medievali che parlavano della comunità cristiana come “casa di comunione”, capace di essere “scuola di comunione”. Sì, perché l’ecclesiologia di comunione deve inverarsi in strumenti e strutture! Ma questo è possibile e autentico solo se si percorre un cammino spirituale, solo se si riesce a instaurare nel tessuto quotidiano delle Chiese una spiritualità di comunione.
Nella sua lettera apostolica Giovanni Paolo II traccia le coordinate di questa spiritualità: essa è da contemplarsi innanzitutto nel mistero della Trinità di Dio che abita in noi e fa di noi cristiani la sua dimora.
Si tratta di far nascere e crescere una capacità di sentire il fratello, la sorella, nella fede (anche il fratello con il qualla comunione non è piena) come una persona che appartiene al corpo di Cristo, un mio fratello, una mia sorella, con cui deve esserci conoscenza reciproca e condivisione. Nello spazio cristiano, infatti, l’altro non è “l’inferno” (come affermava Jean-Paul Sartre), ma è “dono di Dio”, “dono per me”; è ciò che mi manca e che mi rivela la mia insufficienza. No, non è possibile essere cristiani e non solo non volere l’unità, ma non fare tutto ciò che è possibile per la comunione. Chi agisce e vive per la comunione con Cristo non può non agire e non vivere per la riconciliazione e la comunione con i suoi fratelli, membra del suo stesso corpo.
A queste indicazioni lasciateci dalla Novo millennio ineunte vorrei aggiungere alcune urgenze per una spiritualità della comunione che sia ispirata dalla Ecclesiae primitivae forma. Innanzitutto, l’esigenza che la comunione sia plurale. Non si dimentichi mai che la pluralità è attestata dagli e negli scritti fondatori della nostra fede. Dell’unico Signore Gesù Cristo ci sono stati dati quattro Vangeli, cioè quattro annunci diversi, perché non la fissità di uno scritto, bensì la dinamicità dello Spirito santo è all’origine del cristianesimo. C’è sempre stata, fin dall’inizio, pluralità di espressioni scritturistiche, di ecclesiologie, di concezioni cristologiche, di prassi liturgiche, di testimonianze e forme della missio, di accenti spirituali... Questa pluralità è ricchezza di doni, ma è anche negazione di ogni fondamentalismo e integralismo cristiano.
Sì, se si accoglie la diversità come un dono, e non la si ritiene un’anomalia, se la Chiesa catholica sa accogliere la particolarità delle Chiese locali, se sa essere grata dei tesori che le vengono offerti dalle varie culture e tradizioni, e riesce ad attuare lo scambio di tali ricchezze tra le Chiese particolari, allora essa diventa davvero la Chiesa in cui risplende “la multiforme sapienza di Dio” (Ef 3,10), “la multiforme grazia di Dio” (1Pt 4,10). D’altronde, la teologia, la liturgia, la spiritualità, il diritto non possono essere elaborati soltanto a partire da un unico centro, ma dovrebbero essere laboratori in cui confluiscono i contributi di esperienza delle diverse Chiese locali: esperienze vissute, condivise e anche corrette nel dialogo e nel confronto tra le Chiese, animato dallo Spirito di comunione.
Qui, però, si pone un problema non piccolo: c’è un limite alla diversità, che conosciamo come ricchezza ma a volte come possibile tentazione che conduce alla divisione, all’opposizione reciproca?
Questione delicata – riconosce il metropolita Zizioulas – che concerne soprattutto la problematica ecumenica. E con sapienza egli dichiara che «la condizione più importante della diversità è che essa non distrugga l’unità». Questa, del resto, è l’applicazione ecclesiale della parenesi paolina sull’unità del corpo, sulla possibilità di scandalizzare un membro, sulla carità che deve sempre prevalere: il rapporto “uno-molti”, “unità-diversità” è sempre da viversi nell’obbedienza dell’unico corpo e della diversità dei doni dello Spirito santo. Per usare il linguaggio di san Massimo il confessore, la “differenza” è positiva, ma non deve mai diventare “divisione”.
Va però ribadito con forza che questa assunzione dell’alterità non apre lo spazio al relativismo se si accetta che in ogni incontro e confronto regni, come terzo salvifico, Gesù Cristo, il Kýrios. È lui che fa stare insieme mentre distingue, che accomuna mentre personalizza, che tutti conduce verso il Regno veniente. E in questa spiritualità di comunione il riconoscimento del Kýrios ricorda e assicura che la diversità dei doni si componga anche nella preghiera: la preghiera gli uni per gli altri, la preghiera comune, vera epiclesi di un’unica eucaristia. Papa Francesco attraverso questo processo di sinodalità ritrovata e rinnovata vuole condurre alla comunione i figli di Dio dispersi.