Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Williams: tra vizi, tentazioni e beatitudini viene alla luce il nostro bisogno di Dio

14/07/2024 00:00

AA.VV.

Testi di amici 2024,

Williams: tra vizi, tentazioni e beatitudini viene alla luce il nostro bisogno di Dio

Intervista a Rowan Williams

Intervista a Rowan Williams, a cura di Silvia Guzzetti*

S’intitola “Passioni dell’anima” il nuovo libro dell’ex primate anglicano. I social ci spingono a cercare successo e consenso? I Padri del deserto, maestri di felicità, «ci dicono di dimenticarci della nostra immagine Siamo a immagine di Dio, questo ci basta».
 

Si può costruire un manuale per la felicità dell’uomo d’oggi a partire dalla “Filocalia”, la raccolta di testi scritti da maestri dell’ascetica delle Chiese d’Oriente come san Giovanni Cassiano e san Marco l’Asceta, tra il quarto e il quindicesimo secolo? Sì, si può. È quello che ha fatto Rowan Williams, già primate anglicano tra il 2002 e il 2012, famoso teologo e docente a Cambridge. 

 

Il libretto da lui firmato “Passions of the soul” (“Passioni dell’anima”), pubblicato dall’editore britannico “Bloomsbury”, è una diagnosi dell’animo umano e di come esso possa ammalarsi e intorpidirsi, oppure crescere e svilupparsi perché, come dice lo stesso autore, «se non stiamo crescendo, nella nostra vita spirituale, stiamo allora rimpicciolendo». Le passioni che danno il titolo al libro sono i sette vizi capitali della tradizione cristiana, anche se Williams ne dà un’interpretazione in qualche modo positiva, collegandole alle beatitudini e spiegando che il peccato può essere un’opportunità per crescere. L’orgoglio, per esempio, è «il fallimento ad accettare la nostra dipendenza, con gratitudine e grazia, da Dio», una condizione che non affligge i “poveri in spirito” che sanno di non poter esistere senza il Creatore e la comunità.
 

Nel suo libro si sottolinea spesso come una vita vissuta in armonia con Dio sia una vita più in contatto con la realtà, mentre una vita guidata dal peccato è una vita dove l’illusione e la fantasia ci allontanano dalla realtà. Può spiegarci come succede e come evitare che capiti?
 

Penso che tutto dipenda dalla convinzione che gli esseri umani sono fatti, come ha detto sant’Agostino, per Dio, e, di conseguenza, con una serie di capacità che ci consentono di svilupparci per diventare quello che Dio vuole da noi. Il peccato è la combinazione di tutto quello che ci fa ritirare da questo progetto che Dio ha su di noi, proponendoci una certa immagine di noi stessi che non corrisponde alla realtà. Per esempio come più potenti di quello che siamo davvero, o anche più bravi, o più perseguitati o più tormentati. Le passioni, delle quali scrivo nel mio libro, sono un esempio di come un istinto o un desiderio o una paura possano ostacolare la nostra capacità di vedere una situazione con chiarezza e realismo e di reagirvi di conseguenza. Le immagini e le emozioni che controllano la nostra mente e che inseguiamo ci impediscono di concentrarci su quello che sta succedendo davvero nella realtà. Tutto questo ha una dimensione sociale oltre che individuale. Per esempio immaginiamo che la nostra umanità possa fare quello che vuole sulla terra sulla quale viviamo mentre il pianeta ci sta dimostrando, con chiarezza, di avere limiti precisi.
 

Perché allora la nostra epoca guarda alla religione, e al cristianesimo in particolare, come qualcosa di irrazionale e di irrilevante?
 

Perché, come cristiani, non siamo riusciti a comunicare il messaggio che la nostra visione dell’umanità ci consente di agire con più efficacia nel mondo in cui viviamo. I realisti siamo noi perché vediamo un po’ più chiaramente di chi non crede, anche se questo non significa che siamo migliori o più intelligenti di chi non ha consapevolezza di Dio. “La verità vi farà liberi”, come dice il Vangelo, perché non rincorriamo idee astratte o difficili ma ci troviamo dove si trova Cristo per vedere e agire meglio nel mondo. A volte è più facile parlare di regole e di astrazioni, anziché di visioni, perché i nostri occhi non sono abituati e vengono abbagliati dalla luce che le visioni producono, ma soltanto una visione della verità in sintonia col mondo ci farà sentire a nostro agio con Dio e con gli altri.
 

Usando i testi dei Padri del deserto lei fa un’analisi accurata della tentazione e spiega che essa, insieme al peccato, ha un aspetto positivo perché ci dà la possibilità di crescere nella consapevolezza del nostro bisogno di Dio. Può darci qualche esempio pratico?
 

Se diamo a noi stessi il tempo di prendere le distanze e di renderci conto della direzione nella quale ci stanno spingendo i nostri istinti, diventiamo più consapevoli di quegli stessi istinti. Per esempio se reagiamo con rabbia perché qualcuno ci ha offeso oppure accettiamo subito, senza pensarci, un aumento di stipendio per un lavoro che non ci piace la nostra risposta è automatica e rischia di bloccare la nostra creatività e immaginazione. Dovremmo, invece, fermarci, pregare e chiedere a noi stessi se le decisioni che stiamo prendendo arricchiscono oppure no la nostra umanità e l’umanità che condividiamo con altri.
 

Purtroppo non è quello che succede nella nostra epoca, segnata dalla fretta e da ritmi molto frenetici.
 

Più di vent’anni fa c’era una pubblicità famosa nel Regno Unito: “Take the waiting out of wanting”, “togliamo l’attesa dal desiderio”, insomma un invito ad afferrare subito quello che vogliamo. È il modo in cui la nostra società funziona. Senza pause. Senza il tempo per avere la giusta distanza e capire che cosa sta succedendo davvero. È come un pozzo d’acqua che, nel corso di anni, è stato riempito di vecchi tappeti, elettrodomestici, passeggini e altre cianfrusaglie. Questo frastuono mentale, che ci impedisce di sentire Dio, è stato amplificato dai social media che insistono sull’importanza di avere successo, essere convincenti, avere tanti ammiratori. Dovremmo, invece, cercare di fermarci e dire a noi stessi che possiamo fidarci abbastanza di Dio da non doverci reinventare in continuazione, per raggiungere la popolarità. La tradizione dei Padri del deserto ci dice con chiarezza che dobbiamo dimenticarci della nostra immagine perché siamo già stati fatti ad immagine di Dio e questo dovrebbe bastarci.
 

Dove colloca questo libro nella sua produzione e come vorrebbe che venisse usato?
 

Penso che, da quando ho pubblicato, per la prima volta, quando avevo appena 29 anni, “The wound of knowledge” (“La ferita della conoscenza”), ho sempre cercato di rendere attraente, ma anche intellettualmente sofisticato, per l’uomo d’oggi, il messaggio cristiano. Direi che, agli inizi, ero molto impaziente con l’idea di andare oltre la vita delle passioni e di arrivare a uno stato di apatia e non capivo veramente, fino in fondo, questi testi dei Padri del deserto. Oggi so che ci incoraggiano non ad arrivare a una fonte senza tempo ma a puntare a un’autoconsapevolezza amorevole e intelligente e ad imparare a identificare illusione e autoinganno. E, anche, ad amare questo processo di conoscenza e di autoconoscenza senza rimanere paralizzati dal senso di colpa. Spero che questo libro verrà letto da chiunque pensa, anche se non è un teologo o un cristiano, che sia importante imparare a fermarsi e capire come funzionano le nostre emozioni

*in “Avvenire” del 2 luglio 2024