Il Blog di Enzo Bianchi

Il Blog di Enzo Bianchi 

​Fondatore della comunità di Bose

Enzo Bianchi: “A fatica e a caro prezzo, così s’impara la fraternità”

10/11/2024 00:00

AA.VV.

conferenze 2024,

Enzo Bianchi: “A fatica e a caro prezzo, così s’impara la fraternità”

Intervista a Enzo Bianchi di Paolo Rodari - RSI - 06/11/2024

RSI - 06/11/2024

 

Intervista a Enzo Bianchi a cura di Paolo Rodari

Sono circa sei mesi che Enzo Bianchi è entrato insieme ad altri “fuoriusciti” dalla Comunità di Bose in un casolare in aperta campagna ad Albiano d’Ivrea, “Casa della Madia”, dove il monaco di origini piemontesi ha fondato una nuova fraternità in cui condividere stabilmente la vita, il lavoro e la preghiera comune.
 

Le giornate sono scandite da ritmi “certosini”, la cura di un grande orto, le mansioni casalinghe organizzate in turni, l’accoglienza delle persone che cercano ad Albiano sostegno spirituale o anche semplicemente un luogo in cui rigenerare corpo e spirito, la lectio divina ovvero la lettura e la meditazione silenziosa dell’Antico e del Nuovo Testamento.
 

Dopo mesi non facili, Enzo Bianchi è tornato anche alla scrittura, dando alle stampe un nuovo lavoro per Einaudi intitolato “Fraternità”. Elemento più trascurato dei tre coniati dalla rivoluzione francese, la fraternità è per Francesco - che del volume firma la prefazione - «resistenza alla crudeltà del mondo». Perché, dice, «da quando c’è l’umanità Polemos, il demone della guerra, è presente e si manifesta nella rivalità che giunge alla negazione, all’uccisione dell’altro come rivela il fratricidio di Abele da parte di Caino».
 

Enzo Bianchi, partiamo da qui, cos’è per lei “fraternità” e perché l’umanità fatica a riconoscerla e a viverla?
 

«Purtroppo, pensiamo che la fraternità sia un dato di fatto naturale, perché si nasce fratelli, perché qualcuno viene al mondo e ha un fratello, una sorella, prima di lui o dopo di lui. Ma in realtà tutta la storia ci mostra che questa fraternità naturale facilmente accede alla rivalità, alla concorrenza e quindi alla violenza, fino all’uccisione del fratello, come raccontano i miti di tutte le culture. Non solo nella Bibbia - Caino e Abele - ma anche nella cultura romana - Romolo e Remo -, in quella greca, in quella babilonese c’è sempre il fratricidio. Si arriva proprio da fratelli, tra fratelli e sorelle, alla violenza, all’uccisione, alla negazione dell’altro, perché l’altro è colui che è venuto a chiedere di decentrarsi, è venuto a prendere parte del nostro posto, che era un posto unico, tutto nostro, è venuto a prendere parte dei nostri affetti. Affetti della madre e affetti del padre, che erano tutti per noi. E sentiamo ciò come privazione. Ci sentiamo defraudati da quest’altro intruso, sconosciuto, che arriva, che è fratello perché nato dallo stesso grembo della madre come dicevano i greci, ma che in qualche misura ci ha detronizzato. E allora ecco la rivalità. Rivalità che a volte cova tutta una vita e arriva alla fine quando c’è la divisione dell’eredità della famiglia, del padre e della madre. Allora noi comprendiamo come la fraternità non sia un dato di fatto che sta dietro di noi nella vita, ma una vocazione. È un appello. È un esercizio che dobbiamo assumere. È qualcosa che dobbiamo tenere come assolutamente necessario per arrivare alla relazione, ai rapporti e ai rapporti innanzitutto di famiglia. Ma i rapporti poi anche di una comunità, ai rapporti di una società. La fraternità s’impara, non si riceve, s’impara a fatica e s’impara a caro prezzo».
 

Le cronache quotidiane raccontano di grandi conflitti in diverse parti del mondo, e poi dei conflitti, altrettanto terribili, più prossimi a noi: femminicidi, infanticidi, delitti di ogni genere. Scrive Luigi Zoja, «per millenni un doppio comandamento ha retto la morale ebraico-cristiana: ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso. Alla fine dell’Ottocento Nietzsche ha annunciato: Dio è morto. Passato anche il Novecento non è tempo di dire quel che tutti vediamo? È morto anche il prossimo?». Di chi è la responsabilità di tutto ciò?
 

«Dobbiamo essere molto seri con noi stessi e guardare in profondità, ciascuno di noi e guardare le relazioni che ci sono nella società. Negli ultimi anni, negli ultimi due decenni, c’è stato un forte imbarbarimento. È cresciuto il rancore, è cresciuta la rabbia, come dicono sovente anche le indagini che vengono fatte a livello italiano da istituti che sono più che autorevoli. E poi è cresciuta la sfiducia degli uni verso gli altri. Certamente, c’è stata anche la pandemia, ma io non maggiorerei mai questo evento che ci ha tenuti lontani, ci ha separati e ha creato quel bisogno di immunitas che allontana e rende diffidenti gli uni dagli altri. No, siamo diventati più cattivi. E qui la violenza cova più facilmente, a partire dalla famiglia, a partire dai rapporti più intimi, dove vediamo che si manifesta il parricidio, il matricidio, il femminicidio. Ci sono sempre stati, ma oggi c’è una frequenza che non è adeguata alla crescita che si ha all’interno della società di alcuni valori che pur anch’essi sono cresciuti: il rispetto degli altri, l’affermazione della dignità di ciascuno. Il che ci dice come è diventato davvero molto forte, molto efficace, questo desiderio di violenza verso gli altri fino al desiderio dell’annientamento e dell’omicidio. E quindi oggi abbiamo un’epifania di ciò che c’è sempre stato, ma che ha delle cause ben precise in questa evoluzione ultima all’interno della società e della nostra cultura, che è una cultura che non ascolta, che ama lo scontro, che ama assolutamente contrapporsi all’altro senza mai avere la possibilità di uno scambio, di un dialogo. Lo vediamo addirittura nei mass media come si ama lo scontro, la polemica e non il dialogo, non l’ascolto reciproco. Addirittura, dobbiamo confessarlo con vergogna, è lo scontro che fa audience, è lo scontro che richiama spettatori. Sembra che il dialogo, l’ascolto reciproco, non riesca più ad attirare l’attenzione dei telespettatori».
 

A chi scrive Enzo Bianchi? Ovvero, a chi è rivolto questo libro? Da tempo molte categorie che ci hanno accompagnato per anni, credenti e non credenti, laici e atei, sembrano essere sfumate in un nichilismo di fondo, come se la maggior parte delle persone non si ritrovasse più in nessuna categoria. Cosa pensa?
 

«Io mi rivolgo da sempre a credenti e non credenti, perché ciò che per me è importante è veramente l’umanità. Ciò che per me non è estraneo è l’umano. E quindi se io dico una parola, la posso solo dire nello spazio dell’umano. Però attenzione, non si tratta con questo di annullare la differenza cristiana sulla quale ho sostato più volte e che faccio emergere sempre. C’è una differenza cristiana. Certo, la salvezza, la buona notizia riguarda tutti. Non ci sono muri, non ci sono certamente delle enclave per i credenti. Non ci sono posizioni di privilegio nei confronti di una vita umana, se vale o non vale. Tutti saremo giudicati sulla capacità di rapporti con gli altri, nell’amore, nella cura degli altri, nella responsabilità per gli altri alla stessa maniera. Ma se c’è una speranza cristiana, che non è solo per i cristiani, che è quella che la vita vinca la morte, l’amore vinca la morte a causa della resurrezione di Cristo, di questo non mi vergogno, lo dico e penso che possa essere l’annuncio anche per i non credenti. La accolgano o no, la mettano davanti a loro come interrogativo o no…, però la devo dire».
 

Gesù propone una nuova fraternità, se vogliamo, che come scrive lei abbatte le barriere di divisione e distrugge i muri di separazione. Eppure, ancora oggi assistiamo a un cristianesimo dei muri, delle chiusure verso chi è ritenuto essere diverso. Perché secondo lei questa «rigidità», come la chiama a volte anche Francesco?
 

«Innanzitutto lei deve pensare che la Chiesa ha sedici secoli dietro le spalle in cui ha amato l’uniformità, ha amato essere una sola voce, ha amato soprattutto avere una voce contro gli altri. Tutti gli altri che non erano dentro lo spazio della Chiesa, erano nemici. Sono cambiati, sono stati i saraceni, sono stati a un certo punto gli eretici, sono stati gli ebrei: nella Chiesa è stato davvero quasi un piacere poter espellere, poter innalzare muri e dire che qualcuno stava fuori. A me ha sempre impressionato come al mio paese, quando c’era un suicida lo si seppelliva fuori del muro del cimitero. Neanche coi morti lo si metteva. Perché c’era questa volontà di esclusione. Si spiavano i peccati degli altri. Se spiava il pensiero degli altri se era eretico, e lo si rigettava. Ecco, dal Concilio Vaticano II in poi sembra che la Chiesa abbia imboccato un’altra via, che è una via dell’inclusione. E soprattutto è Papa Francesco che ha capito che l’orizzonte per un futuro è quello dell’umanità, non è quello delle confessioni religiose, se pure hanno un significato, ma è l’umanità. E allora lui parla a nome di tutta l’umanità, e anche se dà a volte il messaggio ai cristiani, chi lo sa leggere bene vede che lui con gli occhi guarda all’umanità non cristiana, vede i confini del mondo. Tutta un’umanità deve essere salvata, tutta un’umanità è degna di una vita migliore. Questo mi sembra anche il fondamento della sua “Fratelli tutti” che ha voluto indirizzare a tutti gli uomini. Questo è l’orizzonte cristiano. Ma la Chiesa fa fatica. I cristiani sovente sono gretti. Sono persone molto devote, molto religiose, ma che hanno poca fede. Non hanno una fede stabile, salda, di non temere l’altro. Hanno la religione con cui con l’altro si va solo in concorrenza».
 

Cosa ha portato di nuovo Francesco nella vita della Chiesa? Alcune sue parole in merito ai temi eticamente sensibili ricordano alcune chiusure dei pontificati precedenti, anche se poi le aperture non mancano. Cosa pensa?
 

«Francesco è un uomo conservatore. Ha un’età che può essere solo conservatore. Non potrebbe essere diversamente. E in questo è fedelissimo alla tradizione. E direi che è addirittura pauroso di uscire dalla grande tradizione. E molte sue dichiarazioni portano questo segno, la volontà di non uscire, la volontà di riaffermarla, e qualche volta lo fa con accenti che possono anche essere spiacevoli. L’abbiamo sentito più volte anche contestato per questo. Però è anche vero che lui ha portato una ventata nuova là dove, al di là di queste dichiarazioni, ha saputo aprire alla misericordia, alla compassione della Chiesa. Insomma, io voglio dire con una frase che so da molti non è accettata e non è amata, che Francesco ha evangelizzato Dio. Dio aveva sovente un volto perverso, un volto di giudice severo e cattivo, un volto che non era quello narratoci da Gesù Cristo. Francesco lo riporta là, evangelizza Dio, e il Dio misericordioso che anche di fronte ai nostri peccati li cancella, li dilegua, perché noi possiamo entrare tra le braccia di Cristo per un amore che non va mai meritato. Questo è Francesco».
 

Nel suo libro lei parla anche del tradimento: «Il dramma che può verificarsi nella fraternità è il tradimento». Lei ha dovuto lasciare Bose a un certo punto ad arrivare fino a qui. Si è sentito in qualche modo tradito? O che cosa esattamente le è accaduto?
 

«Sì, c’è stato un tradimento, non della comunità, ma certamente di due, tre, tra i più vicini a me nella comunità. Tradimento perché non solo di fatto hanno causato la visita apostolica, ma l’hanno aggravata. Posso essere certo che di fronte a quello che veniva proposto nella visita apostolica, loro ne chiedevano l’aggravamento. Dopo trent’anni che avevano lavorato con me in piena concordia, senza mai contestazioni, senza mai una volta dire: non sono d’accordo. E questo, se succede da un giorno all’altro, è un tradimento».
 

Nel 2012 in una intervista rilasciata poco prima di morire il cardinale Carlo Maria Martini disse che la Chiesa è rimasta indietro di duecento anni. Crede che sia ancora così. Se sì, cosa fare?
 

«Guardi, io conservo un grande amore per il cardinal Martini. Quando disse questa frase, dissi tra di me che era una boutade. E quando la sento ripetere da quelli che si credono suoi discepoli e che pensano di dire il Vangelo di Martini mi metto a sorridere. Si può dire una frase così in una conversazione, ma non significa nulla la Chiesa è indietro di duecento anni. Su alcune cose la Chiesa può darsi sia indietro di mille: continua a fare una liturgia con tutto un lessico medioevale che non so quanto possa interessare i ragazzi di oggi che hanno vent’anni. Su altre cose la Chiesa direi è più avanti della società e dei laici. Insomma, diciamo che la Chiesa fa comunque fatica rispetto alle novità, questo è vero. E quando appare un profeta come Papa Francesco arriviamo per la prima volta nei tempi recenti all’assurdo che il Papa è più avanti del gregge, perché noi non abbiamo il coraggio di dire la verità. Il Papa vuole un’apertura alle donne nella Chiesa che non la vuole il popolo di Dio. Lo dico perché lo ascolto e lo conosco. Il popolo di Dio non vuole le donne diacono, non vuole l’accesso delle donne al ministero. Non vuole la benedizione alle coppie gay. Il Papa fa queste aperture da profeta, apre un processo per lo meno, quindi è più avanti di un gregge che stenta a stargli dietro. E ricordo che, proprio in Italia, in certe regioni (lo dico, ma lo posso dire con elementi in mano, non così), in certe regioni il Papa non è amato. La maggior parte dei cattolici in Lombardia, in Veneto, non lo ama. Soprattutto per quelle parole che lui dice sulla povertà, sui migranti: no, non è amato per questo. Quindi attenzione, abbiamo un Papa che è un segno di
contraddizione e non ci serviamo delle boutade simpatiche di un cardinale per far del magistero».
 

Da decenni la fede sembra essere entrata in crisi soprattutto all’interno del cristianesimo. Non crede che siamo di fronte a un momento epocale? Diversi teologi post teisti o trans teisti sottolineano come la visione di Dio che ha accompagnato il cristianesimo fino a oggi sia ormai improponibile, quel Dio che vive nei cieli e che da lì dispone della vita degli uomini… e che o il cristianesimo si ripensa completamente o è destinato a morire. E’ d’accordo?
 

«Allora questi teologi post teisti mi sembrano dei pigmei… io ricordo che questa svolta l’ha fatta Dietrich Bonhoeffer e l’hanno fatta tanti teologi come lui. E che nelle nuove generazioni del cristianesimo è presente il Dio perverso di Maurice Bellet. È una denuncia di quarant’anni fa: le Dieu pervers, dove Bellet già diceva queste cose. Quindi l’immagine di Dio è cambiata, non c’è più, salvo quelle sacche di devozione di qualche nostalgico del mondo pietistico. Il problema oggi, siamo tutti d’accordo, è che Dio è diventato una parola insufficiente. Ma questo lo diceva già Clemente Romano alla fine del I secolo. Dio per noi cristiani è una parola insufficiente, è una parola ambigua. Dio, lo dicono tutte le religioni. E chi dice che il mio Dio sia il Dio dei musulmani? Da quando? Solo perché semplicemente tutti si rifanno a quella pagina della Bibbia? Ma dipende dall’immagine che io proietto su Dio. Ci sono tanti cattolici che dovrebbero avere il mio Dio, ma che durante la pandemia dicevano che la pandemia è stata mandata da Dio come castigo per il malcostume e l’omosessualità regnante in Occidente… Io dico quelli non hanno il mio Dio, non abbiamo la stessa fede. Il problema serio è che il Dio di Gesù Cristo non è un qualsiasi Dio. Questo lo dicevano i grandi padri al tempo della marea pagana nel primo, secondo, terzo secolo. Dio è insufficiente. Non dimentichiamoci quel che ci dice Giovanni nel Vangelo: Dio nessuno l’ha mai visto, ma Gesù Cristo ce ne ha fatto il racconto. Noi senza il racconto di Dio di Gesù Cristo, di Dio sappiamo nulla, di Dio possiamo dire nulla, di Dio possiamo ubbidire nulla. E quel che Gesù Cristo non ci ha detto di Dio, noi cristiani non dobbiamo assolutamente ubbidirlo o farlo».
 

Sempre il cardinal Martini disse che vivere è convivere con l’idea che tutto prima o poi finirà. Che cos’è per lei la morte?
 

«Sono d’accordo con Martini, anche perché con lui ho avuto delle conversazioni bellissime negli ultimi tempi proprio sulla morte, sulla paura della morte, sull’aldilà. E il cardinal Martini sollevava molte domande. Mi faceva molte domande, mi chiedeva se anch’io avevo paura, se c’erano paure. E certamente bisogna dire che diventando vecchi non è vero che cresca la fede come pensano molti. La fede è più attraversata da domande. E, quindi, da incertezze. E, quindi, anche da dubbi. Però, dicevo a Martini, ciò che è bello del cristianesimo è che c’è qualcosa che vince la fede ed è più importante della fede ed è l’amore. Io credo che tante volte ho poca fede, ma l’amore per Gesù Cristo è più grande e compensa la mia mancanza di fede. Questo dobbiamo pensarlo con tranquillità. Sarà l’amore che ci porterà a incontrarlo. La fede può darsi che non ci basterà. Poi Gesù ci ha detto a nostra gioia che basta una fede d’un granello di senapa piccolissimo… Io non so se ne ho un granello o se ne ho un masso. L’amore lo so, perché l’amore lo sentiamo dentro. E l’amore per Cristo è tanto e mi basta. È quello che mi fa andare verso la morte con speranza, con speranza più che con fede, con speranza, speranza e carità mi guidano alla morte».
 

Può raccontarci qualcosa, anche poco, del suo ultimo incontro col Papa?
 

«Posso dirle che il Papa sta bene. Veramente l’ho trovato in forze. Anche come camminava, come salutava. Poi, certo, era molto commosso. Io non ho mai perso la coscienza di essere il figlio di uno stagnino in una famiglia povera, poverissima, di venire da un piccolo paese del Monferrato. Avrei mai nella vita pensato di poter stringere la mano a un Papa, tanto meno di avere un’amicizia come ho avuto con Papa Ratzinger, Benedetto XVI, una vera amicizia e poi con lui che è arrivato inatteso. Lui mi ha detto ancora una volta il suo amore, la sua fiducia in me. Potrei dire di più, però siccome riguarda altre persone preferisco fare silenzio. Ma certo ho sentito un padre che mi ha capito, che ha mai ascoltato le accuse contro di me. E che mi vuole dare tutti i segni di un amore. Me li ha dati in tutto questo tempo, mandandomi vescovi a trovare, mandandomi i vescovi a chiedere come stavo, scrivendomi poi con la l’udienza, adesso con la prefazione. Certo, per me è il Papa che posso dire
che è vero padre per me, e alla fine della vita è un grande dono».