Il Blog di Enzo Bianchi

Il Blog di Enzo Bianchi 

​Fondatore della comunità di Bose

Un centro monastico «panortodosso»

25/01/2025 00:00

AA.VV.

Testi di amici 2025,

Un centro monastico «panortodosso»

di Luigi d'Ayala Valva

Durante i diversi soggiorni al monte Athos Fratel Enzo Bianchi aveva saputo della presenza di monaci benedettini provenienti da Amalfi nel monastero di Amalfi situato sulla Santa penisola dell’Athos. Aveva visitato le rovine del monastero sognando il ripristino di una presenza di monaci cattolici al cuore dell’ortodossia. Di questo sogno, fratello Enzo Bianchi ne parlò con il Patriarca Ecumenico Dimitrios a Costantinopoli e poi con il suo successore grande amico sua santità il patriarca Bartolomeo. Purtroppo quello che era anche un desiderio del Patriarcato Ecumenico si mostrò molto difficile e allora impossibile. Ma oggi come testimonia l’articolo qui riprodotto e pubblicato su Settimana news si è riacceso un interesse su questo luogo beato che potrebbe essere domani una profezia di comunione tra chiesa cattolica e chiese ortodosse. Impossibile sognare che sulla Santa montagna del Athos siano presenti dei monaci cattolici che in comunione, per quanto possibile con le comunità ortodosse, diano la testimonianza di una amore fraterno che accelera l’unità di tutti i cristiani?

di Luigi d'Ayala Valva*

Il Monte Athos, o «Santa Montagna» (Haghion Oros), centro monastico tra i più celebri dell’Ortodossia e che negli ultimi decenni sempre di più attira pellegrini anche dai paesi dell’Occidente latino, di tanto in tanto assurge agli onori della cronaca, per lo più a causa di qualche posizione antiecumenica assunta o dall’insieme dei suoi monasteri (rappresentati dal suo organo ufficiale, la Ierà Kinòtis) o da alcune delle sue frange più estremiste, spesso in occasione di una visita del papa in Grecia, del patriarca ecumenico a Roma (o in altri paesi occidentali) per un evento ecumenico, o ancora di una visita di qualche altro metropolita ortodosso per lo stesso motivo considerato troppo aperto, e quindi «persona non grata».

 

Queste posizioni rigide nei confronti del dialogo con l’Occidente, che qualcuno potrebbe facilmente definire fondamentaliste, rischiano però di offrire del Monte Athos un’immagine caricaturale e distorta, lasciando erroneamente pensare che la «Repubblica monastica Athonita» costituisca un’entità omogenea e monolitica, quando in realtà al suo interno essa presenta una grande varietà di forme di vita, di persone, di atteggiamenti e di approcci culturali e spirituali. Una simile semplificazione mette soprattutto in ombra quello che, a chi conosca un po’ più direttamente e in profondità la sua vita e la sua storia, appare come uno dei tratti più caratteristici e più affascinanti dell’esperienza monastica athonita: il suo carattere «panortodosso» e internazionale (ovvero «ecumenico» nel senso più originario del termine).

 

Sulla penisola – che è parte integrante dello stato greco, pur godendo di un’ampia autonomia di governo[1] – non sono presenti infatti soltanto monaci o monasteri greci, ma vi troviamo un’ampia rappresentanza di tutte le nazioni in cui è diffusa la fede ortodossa. Nello spazio di pochi chilometri il pellegrino che si sposta da un monastero all’altro può avere così uno spaccato dell’intera Ortodossia mondiale e così passare da monasteri di lingua e tradizione greca (come quelli di Meghisti Lavra, Vatopedi, Simonopetra, Xenophontos, Pantokratoros…) ad altri di lingua e tradizione russa (come S. Panteleimon) o bulgara (come Zografou), o serba (come Chilandar) o rumena (come la cenobitica Skiti Prodromou), senza contare che spesso la diversità culturale e linguistica si incontra anche all’interno dei singoli monasteri, o che le realtà monastiche più piccole (come le celle e le skiti) possono dipendere da monasteri con affiliazioni nazionali diverse.

 
«Amalfion», un documentario

 

Questo carattere «panortodosso», internazionale e multiculturale, che era per altro tipico di diversi centri monastici bizantini fin dalla tarda antichità – basti pensare ai monasteri della Palestina, del Sinai o più tardi del Monte Olimpio in Bitinia, dove esso è ben documentato grazie alle fonti letterarie e documentarie – ha caratterizzato l’Athos fin dalle sue origini[2]. Pochi forse sanno però che questa diversità di culture nazionali presenti sull’Athos comprendeva in passato anche dei monaci latini di origine italiana.

 

È merito del recente documentario Amalfion: une présence bénédictine au Mont Athos, co-prodotto da Nomade Production e dal canale francese KTO[3], di aver attirato di nuovo l’attenzione su questa pagina di storia affascinante e un po’ dimenticata, anche se di fatto da sempre ben nota agli studiosi di storia athonita: l’esistenza di un monastero benedettino sul Monte Athos, «Santa Maria degli Amalfitani», attestato almeno dagli anni Ottanta del X fino a verso la fine del XIII secolo.

 

Ma come è stato possibile che un monastero latino sia sopravvissuto nella roccaforte dell’Ortodossia per diversi secoli, superando indenne perfino la data fatidica dello scisma del 1054?

 

Per rispondere a questa domanda, il regista Alexey Vozniuk, con la collaborazione scientifica di Serhii Shumylo, direttore dell’Istituto internazionale del Patrimonio Athonita di Ucraina, e di Olivier Delouis, tra i massimi specialisti del monachesimo bizantino, dopo aver ottenuto il sostegno delle comunità ortodosse di Francia e del Monte Athos, ha consultato gli abbondanti archivi scientifici e storici del Collège de France, prima di visitare direttamente il sito e documentare con le sue immagini ciò che ancora rimane di questo monastero: una torre quasi sepolta tra la boscaglia e nota appunto come «Torre degli Amalfitani», sulla costa orientale della penisola athonita.

 

Il risultato è un documentario originale dal sapore sorprendentemente ecumenico: è destinato infatti al pubblico francese e occidentale e viene trasmesso su KTO in prossimità del 1700esimo anniversario del primo Concilio di Nicea (325 d.C.), un evento che coinvolge tutti i cristiani. In poco più di cinquanta minuti di durata, oltre a splendide immagini ravvicinate e del tutto inedite di ciò che resta del monastero degli Amalfitani, esso comprende anche brevi interviste a monaci athoniti e a due presbiteri cattolici ospiti per un certo periodo sul Monte Athos.

 
Un po’ di storia

 

Ciò che sappiamo di questo monastero degli Amalfitani è davvero molto poco – tutti i documenti che vengono ampiamente citati e discussi nel documentario sono da sempre noti agli specialisti, e da questo punto di vista non c’è niente di veramente nuovo[4] – anche se una campagna archeologica sistematica potrebbe forse ancora rivelare qualche aspetto sconosciuto della storia e della sua struttura architettonica.

 

Per raccogliere i dati storici sui quali gli studiosi sono sostanzialmente concordi, si può cominciare con il dire che la fondazione di questo monastero avvenne in un periodo in cui la penisola athonita, dopo il decisivo turning-point della fondazione della Grande Lavra ad opera di s. Atanasio l’Athonita (963), che fu il primo grande monastero cenobitico, costruito con la sponsarizzazione e la protezione diretta dell’imperatore, fece il grande balzo dalla semi-oscurità alla generale notorietà cambiando radicalmente la sua struttura monastica: da centro monastico solitario, abitato quasi esclusivamente da anacoreti, diventò la meta preferita di monaci provenienti da tutto il mondo cristiano e così, in pochi decenni, i grandi cenobi ebbero la meglio sulle celle e sulle grotte eremitiche[5].

 

Nella Vita di Atanasio l’Athonita (§ 158) scritta da Atanasio di Panaghiou prima del 1025, leggiamo che la fondazione della Grande Lavra, il carisma e la fama di santità di Atanasio attirarono sulla Montagna monaci provenienti da tutta l’ecumene, e in particolare «da Roma e dall’Italia, dalla Calabria, Amalfi, dall’Iberia [cioè Georgia], dall’Armenia e da regioni ancor più interne»[6]. In un altro passo della stessa Vita (§ 178), che si riferisce a un momento successivo della vita del santo, si racconta di monaci amalfitani ormai residenti sulla Montagna che vengono in visita alla Lavra di Atanasio e gli recano in dono una prelibata salsa di pesce (il famoso garum, di cui parlano diverse fonti bizantine)[7]. Secondo questa testimonianza la presenza amalfitana sembra quindi risalire agli anni della vita di Atanasio (dunque a prima del 1000 ca., data probabile della sua morte) ed essere direttamente legata alla sua opera e alla sua persona.

 

Il racconto di un altro testo agiografico, la Vita di Giovanni e Eutimio (fondatori del monastero georgiano di Iviron, e loro volta giunti sull’Athos perché attirati dal carisma di sant’Atanasio) aggiunge altri elementi e presenta i fatti in modo diverso: Leone, fratello del principe di Benevento – quindi non esattamente un amalfitano – insieme a sei suoi confratelli si sarebbe insediato sulla Santa Montagna poco dopo la fondazione di Iviron (verso il 980).

 

In un primo momento, a causa di una certa solidarietà tra stranieri, in un ambiente che era dominato dai monaci greci, i georgiani avrebbero invitato gli italiani a vivere insieme a loro a Iviron («Noi siamo stranieri, e anche tu sei straniero», avrebbero detto a Leone), ma quando altri italiani provenienti da Costantinopoli e da altre città dell’impero si unirono ai discepoli di Leone, questi ultimi, con il sostegno di Giovanni di Iviron, avrebbero deciso di fondare un loro monastero, che – conclude il biografo, il quale scrive verso la metà dell’XI secolo – «oggi e l’unico monastero dei romani sulla Santa Montagna: essi vi conducono una vita esemplare organizzata secondo la regola e le disposizioni di san Benedetto, la cui vita e descritta nei Dialoghi»[8].

 

Queste due importanti testimonianze agiografiche, pur non del tutto concordi, si riferiscono senz’altro allo stesso monastero, anche se non è del tutto chiaro il ruolo che ebbe all’inizio l’elemento amalfitano. Probabilmente, se, come sembra, dobbiamo prestare fede alla Vita di Giovanni e Eutimio, i primi monaci di questo monastero furono dei longobardi provenienti da Benevento, e solo dopo (ma comunque molto presto e quando probabilmente era ancora in vita Atanasio) il monastero vide un massiccio afflusso di italiani di origine amalfitana, alcuni forse transitati prima dalla Lavra di Atanasio, ma in ogni caso provenienti dalla colonia amalfitana di Costantinopoli, più che direttamente da Amalfi (non si dimentichi che Amalfi in questo periodo era una delle più potenti repubbliche marinare, con grandi interessi commerciali nella capitale dell’impero, dove possedeva anche un monastero).

 

Fu solo allora, quando l’elemento amalfitano divenne prevalente, che il suo nome diventò monastero «degli Amalfitani» (tôn Amalfinôn), attestato nei documenti di archivio a partire dal 1010[9]. Il suo primo nome era stato probabilmente Monastero tôn Apothikôn («dei Magazzini»), dal toponimo del luogo dove i monaci si erano insediati, nei pressi del capo Kosari, come attesta un documento del 985 (Actes d’Iviron nr. 7), in cui il monaco Giovanni appone la sua firma in lingua e caratteri latini (Ego Johannes monachos ton Apothikon testis sum, «Io, Giovanni monaco di Apothikon sono testimone») in mezzo a un’intera lista di monaci e igumeni che firmano in greco.

 

Nei secoli successivi altre firme similmente scritte in latino da monaci (per lo più abati) appartenenti allo stesso monastero sono attestate nei documenti athoniti fino alla seconda metà del XII secolo e, dalla posizione in cui sono collocate, dimostrano che il monastero aveva un posto di prestigio nell’ambito della gerarchia dei monasteri athoniti.

Anche se non c’è modo di sapere, nemmeno in modo approssimativo, il numero dei monaci che vissero in questo monastero, la sua posizione di prestigio unita alla clausola che lo riguarda nel Typikon di Costantino Monomaco (un «regolamento generale» della Santa Montagna emanato dall’imperatore nel 1045 per risolvere una crisi insorta tra i monasteri) suggerisce un numero alquanto consistente.

 

Quest’ultimo documento, infatti, mentre conferma il generale divieto per i monasteri athoniti di possedere navi di grande stazza, concede a titolo di eccezione al monastero degli Amalfitani il privilegio di possedere una grande nave, per permettere loro – si dice – di raggiungere Costantinopoli e di caricare là tutto ciò che i fedeli avrebbero loro offerto, perché altrimenti, si chiarisce, «essi non avrebbero modo di sopravvivere» (Actes du Protaton, nr. 8)[10].

Questo suggerisce chiaramente che gli amalfitani dovevano essere piuttosto numerosi e quindi bisognosi di abbondanti risorse per mantenersi, e anche che la loro sopravvivenza materiale dipendeva essenzialmente dalla generosità dei connazionali residenti nella capitale imperiale. In epoca successiva però non mancano documenti di archivio che attestano come il monastero avesse anche acquisito proprietà fondiarie in grado di garantire delle rendite autonome (cf. Actes de Lavra I, nr. 43).

 

Quanto all’amministrazione e alla vita interna di questo monastero, non ne sappiamo molto. Sicuramente, come ci dicono le fonti, la comunità seguiva la Regola di san Benedetto, quindi era a tutti gli effetti una comunità benedettina, anche se questo non implicava il suo inserimento in un «ordine benedettino», che allora non esisteva, né a una qualche congregazione di monasteri.

 

La Regola semplicemente rappresentava la tradizione monastica latina che questi monaci avevano conosciuto in patria e che avevano voluto custodire portandola con sé (si tenga anche presente il fatto che nel X secolo la Regola di san Benedetto si era ormai imposta come regola monastica unica in tutto l’occidente latino): essa quindi organizzava la loro vita quotidiana sul Monte Athos come avrebbe potuto fare in modo simile a Montecassino[11].

 

È naturale che come «isola culturale» latina all’interno di un centro monastico prevalentemente greco il monastero facesse il possibile per preservare e promuovere la propria tradizione culturale sia per uso interno sia anche di fronte agli altri monasteri: in questo senso è verosimile, come suggeriscono alcune testimonianze – e come avveniva in modo parallelo anche nel monastero georgiano di Iviron –, che i monaci benedettini amalfitani avessero uno scriptorium in cui si impegnavano nell’opera di traduzione dei testi, sia dal latino al greco (probabilmente della stessa Regola di Benedetto)[12] sia dal greco al latino[13].

 

Comunque il monastero, pur mantenendo le proprie tradizioni e la propria lingua liturgica (gli uffici sicuramente erano celebrati in latino, seguendo le indicazioni della Regola di san Benedetto) era a tutti gli effetti inserito nella struttura amministrativa athonita: riconosceva cioè l’autorità del Protos, il primate della Montagna (che però non poteva intervenire nell’amministrazione interna del monastero) e aveva piena communicatio in sacris con tutti gli altri monasteri della penisola.

 

Non sembra che gli eventi politico-religiosi che portarono alla reciproca scomunica tra il papa di Roma e il patriarca di Costantinopoli nell’anno 1054 (generalmente assunto come la data dello scisma canonico tra la Chiesa d’Oriente e d’Occidente) abbiano minimante compromesso la possibilità per questi monaci di continuare la loro vita sull’Athos[14]. Possiamo certo supporre che, in conseguenza delle dispute dottrinali in corso, dall’autorità athonita ad essi siano state richieste garanzie di fedeltà alla fede ortodossa, ma le firme latine presenti nei documenti fino a verso la fine del XII secolo indicano comunque in modo chiaro che questo monastero continuò a giocare un ruolo attivo nella storia della Montagna e che la sua specificità linguistica e culturale fu mantenuta e rispettata[15]. In quanto tale essa non sollevava alcun problema[16].

 

E quando, nel 1198, il monastero di Chilandar fu fondato come monastero specificamente destinato ai membri della nazione serba, la sua posizione venne ammessa da parte delle autorità anche grazie all’analogia con gli altri due grandi monasteri non-ellenofoni già esistenti sulla Montagna, quello dei Georgiani, Iviron, e quello degli Amalfitani (cf. Actes de Chilandar I, nr. 3; 4; 5), e sembra quindi che all’epoca il monastero amalfitano fosse ancora in vita. Un documento più tardo, risalente agli anni Venti del XIII secolo (all’epoca della dominazione latina dell’impero d’Oriente, quando forse il monastero degli Amalfitani aveva già cominciato il suo declino), una sentenza del canonista Demetrio Chomatenos, pur pronunciandosi ormai contro la possibilità della comunione sacramentale tra latini e greci al suo tempo, riconosce tuttavia, senza citare per nome il nostro monastero, che sull’Athos i monaci greci e latini avevano sempre vissuto in comunione fra di loro ed erano «separati soltanto dalla lingua»[17].

 

Il declino del monastero comunque con il tempo arrivò, inesorabile. Non sono del tutto chiare le cause, ma a poco a poco del monastero si perdono le tracce documentarie. Nessuna menzione ad esempio è rimasta nei documenti d’archivio per il periodo della dominazione latina (1204-1261), durante la quale la posizione degli Amalfitani dell’Athos – se ancora esistevano – doveva comunque essere diventata a dir poco scomoda e imbarazzante[18].

 

Poco dopo la presa di Costantinopoli da parte dei crociati nel 1204, un vescovo latino con il titolo di Sebaste, nominato sovrintendente dell’Athos, iniziò un saccheggio sistematico dei monasteri della Santa Montagna, stabilendo la sua base in una fortezza situata appena fuori dall’attuale confine terrestre dell’Athos, nel luogo oggi noto come Frangokastro.

 

Informato di tali patenti brutalità, papa Innocenzo III pose i monasteri del Monte Athos sotto il suo diretto patrocinio e, con l’invio di due lettere nel 1211 e nel 1214, cercò di proteggerli contro gli attacchi dei crociati; ma che tale patrocinio sia stato reso possibile dalla mediazione dei monaci amalfitani dell’Athos è solo un’ipotesi suggestiva, perché in realtà non esiste alcuna prova e forse – ripeto – il monastero era già in stato di abbandono o quantomeno in declino. Con il declino di Amalfi come potenza marinara nel corso del XII secolo, del resto, anche il sostegno della comunità amalfitana di Costantinopoli (sia in termini economici sia in termini di reclutamento delle vocazioni) era venuto meno.

 

In ogni caso un atto del Protos della Santa Montagna, datato al 1287, prende definitivamente atto del fatto che il monastero è «ormai completamente trascurato e privo di ogni sicurezza e direzione, e talmente decaduto che si trova in un pessimo stato di conservazione: la chiesa e le celle dei monaci sono crollate, così che nessuno vi può condurre la vita monastica né recitare le preghiere di rito per i nostri potentissimi e santi imperatori e per tutto il popolo dei cristiani; l’ultimo vigneto è incolto a causa della trascuratezza e della povertà, e l’oliveto è deserto e secco; in breve sono rimasti solo relitti di quello che una volta serviva per il sostentamento di coloro che vi vivevano» (Actes de Lavra II, nr. 79)[19].

 

Con lo stesso atto si decise così che l’edificio venisse assegnato in donazione e integrato nelle proprietà della Grande Lavra, la quale si impegnò a restaurarlo e a riportarlo in vita. Era però terminata, una volta per tutte, la storia del monastero latino degli Amalfitani, perché anche se questo restauro fu effettivamente realizzato – e l’attuale torre rimasta sembra risalire proprio a questo periodo – e può aver assicurato la sopravvivenza materiale del monastero ancora per un qualche tempo, non si trattò più di un monastero autonomo né fu più abitato da monaci latini.

 
Nostalgia dell’unità perduta e umile attesa

 

Il destino di questo monastero e della sua comunità è una pagina unica e poco conosciuta della storia della Santa Montagna, così come dell’unità spirituale e delle relazioni tra il monachesimo delle Chiese d’Oriente e d’Occidente. Valeva la pena di evocarla per sommi capi e ci sembra benemerita la scelta di dedicarle questo interessante documentario.

 

Tutt’oggi la semplice vista della Torre degli Amalfitani, che si erge solitaria sulla costa orientale athonita, protesa verso l’Egeo e circondata dalla vegetazione selvaggia, al monaco occidentale che ha la ventura di scorgerla dal mare, navigando da Iviron verso la Grande Lavra, suscita un’emozione profonda, la triste nostalgia di un’unità perduta, di un tempo in cui era possibile vivere fianco a fianco senza condanne né anatemi reciproci… E allora – come ebbe a scrivere p. André Louf, grande monaco d’Occidente che nutrì per l’Athos e la sua tradizione spirituale una profonda venerazione – «i più audaci si sorprendono a sognare una nuova fondazione occidentale sul Monte Athos: sogno che, certamente, nell’attuale stato di cose, sconfina nell’utopia»[20].

 

Di fatto, secondo l’attuale normativa che regola la vita, fissata nella Carta costituzionale della Santa Montagna, una fondazione o anche la semplice residenza stabile di una comunità di confessione non-ortodossa è semplicemente esclusa[21]. La memoria collettiva athonita nei confronti dell’Occidente, come lascia intendere p. Macario nell’intervista riportata dal documentario, è ancora una memoria ferita: l’Occidente è essenzialmente avvertito come una minaccia e ci vorrà forse ancora tanto tempo perché una guarigione di tale memoria sia possibile.

 

Il massimo di apertura che un monaco athonita oggi sembra poter concedere – almeno in pubblico – è espresso dalle parole dell’archimandrita Gabriel, superiore del Nuovo Esfigmenou, riportate nel documentario: «Sarebbe meraviglioso restaurare il monastero degli Amalfitani, perché la preghiera possa rinascervi! Vorrei davvero che i cristiani dell’Europa occidentale ritornassero verso i loro principi ortodossi: là troverebbero la vera fede in Gesù Cristo. Così potrebbero venire ad abitare qui e insieme potremmo pregare la Vergine Maria e tutti i santi!».

 

Il pellegrino occidentale sul Monte Athos dovrà essere particolarmente umile e discreto, da non pretendere – troppo presto e troppo facilmente – dai suoi interlocutori athoniti una reciprocità che essi non sono (ancora) capaci di offrirgli; almeno non nella misura in cui egli desidererebbe secondo le sue aspirazioni ecumeniche più sincere. In fondo, anche questa disposizione di umiltà e di pazienza, che ci fa mettere «nei panni dell’altro», senza pretendere che egli condivida subito le nostre convinzioni, è parte integrante di un autentico atteggiamento «ecumenico».

 

E quando talora nel corso di un colloquio, grazie anche a tale disposizione, che predispone all’accoglienza dello Spirito – senza pretendere nulla – l’incontro gratuito e spontaneo tra i singoli cuori che ardono si accende improvviso come una scintilla, superando miracolosamente ogni divisione o sospetto, allora un solo istante di grazia ripaga di tante fatiche, di tante sconfitte, di tante parole amare e umiliazioni ricevute, e non si potrà che rendernere grazie riprendendo umilmente il cammino. È lo spirito, mi sembra, con cui è stato realizzato e diffuso questo documentario.

 

[1] Cf. Costituzione della Grecia (1975), capitolo III, articolo 105: «La penisola dell’Athos, che … forma il territorio del Monte Athos, è, secondo il suo antico statuto privilegiato, una parte ad amministrazione autonoma dello Stato greco, la cui sovranità rimane intatta». Cf. G. Papathomas, Le Patriarchat œcuménique de Constantinople (y compris la Politeia monastique du Mont Athos) dans l’Europe unie (Approche nomocanonique), Katérini 1998, p. 866.

[2] Cf. Mount Athos: Microcosm of Christian East, a cura di G. Speake e K. Ware, Peter Lang, Oxford 2009; G. Speake, A History of the Athonite Commonwealth: The Spiritual and Cultural Diaspora of Mount Athos, Cambridge 2018.

[3] https://www.youtube.com/watch?v=ZY5lxYzLfUU&t=82s

[4] Tra l’abbondante bibliografia sulla storia del Monastero degli Amalfitani rimando ai seguenti contributi: V. von Falkenhausen, «Il monastero degli Amalfitani sul Monte Athos», in Atanasio e il monachesimo del Monte Athos. Atti del XII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, sezione bizantina (Bose 12-14 settembre 2004), a cura di S. Chialà e L. Cremaschi, Qiqajon, Magnano 2005, pp. 101-118; Ead., «Il monastero τῶν Ἀμαλφινῶν sul Monte Athos», in L’Athos e l’Occidente, a cura di A. Manzella, introduzione di A. Mainardi, Firenze 2017, pp. 55-66; M. Plested, «Latin Monasticism on Mount Athos», in Mount Athos: Microcosmcit., pp. 97-111; M. Merlini, Un monastero benedettino sul Monte Athos: X-XIII secolo, Subiaco 2017; M. Muresu, «Un esempio di ‘relazioni internazionali’ nel Mediterraneo mediobizantino: il monastero degli Amalfitani al Monte Athos (Grecia)», in Theologica & Historica. Annali della Pontificia Facolta Teologica della Sardegna 26 (2017), pp. 347-368.

[5] Sulla storia del monachesimo athonita e sulla fondazione della Grande Lavra, rimando a D. Papachryssanthou Ἀθωνικὸς μοναχισμός. Ἀρχὲς καὶ ὀργάνωση, Athinai 1992; K. Ware, «St. Athanasios the Athonite: traditionalist or innovator?», in Mount Athos and Byzantine Monasticism. Papers from the Twenty-eighth Spring Symposium of Byzantine Studies, Birmingham, March 1994, a cura di A. Bryer e M. Cunningham, Aldershot 1996, pp. 3-16; K. Chryssochoidis, «Dall’eremo al cenobio: storia e tradizioni delle origini del monachesimo athonita», in Atanasio e il monachesimo del Monte Athoscit., pp. 27-45; L. d’Ayala Valva, La «Vita di Atanasio l’Athonita» di Atanasio di Panaghiou, Roma 2017, pp. 11-22; e Id., «Introduzione», in Atanasio l’Athonita, Una città posta sul monte. Regolamenti monastici per la Grande Lavra e altri documenti, a cura di L. d’Ayala Valva, Magnano 2025 (di prossima pubblicazione presso Qiqajon).

[6] Cf. L. d’Ayala Valva, La «Vita di Atanasio l’Athonita», pp. 262-265.

[7] Cf. ibid., pp. 288-289.

[8] Cf. B. Martin-Hisard, «La ‘Vie de Jean et Euthyme’ et le statut du monastère des Ibères sur l’Athos», in Revue des études byzantines 49 (1991), pp. pp. 109 ss.

[9] Esso era dedicato alla Vergine Maria. Un atto del 1169 è sottoscritto da M. presbyter et monachus et abbas sanctae Mariae cenobii Amalfitanorum (Actes de S. Panteleimon, nr. 8).

[10] Cf. anche Byzantine Monastic Foundation Documents, vol. I, a cura di J. Thomas e A. Constantinides Hero (Dumbarton Oaks Studies 35), Washington 2000, p. 287.

[11] Interessanti legami tra questo monastero e quello di Montecassino sono attestati in alcuni documenti cassinesi che parlano del soggiorno del monaco cassinese Giovanni di Benevento sul Monte Athos (in Monte qui Agyon Oros dicitur) poi ritornato a Montecassino, in seguito a un’apparizione dello stesso san Benedetto, per esservi fatto abate (cf. Dialogi de miraculis sancti Benedicti auctore Desiderio abbate Casinensi, a cura di G. Schwartz e A. Hofmeister, Lipsiae 1934, pp. 1127 ss.; Chronica monasterii Casinensis, a cura di H. Hoffman, Hannover 1980, p. 206.

[12] Certamente Atanasio l’Athonita conobbe e poté disporre di una traduzione (almeno parziale) della Regola di Benedetto, perché negli ultimi paragrafi della sua Ipotiposi (Regolamento liturgico e disciplinare) per la Grande Lavra cita letteralmente in traduzione greca, pur senza dichiararlo, alcuni passi della Regola (§§ 57 e 66): con ogni probabilità tale traduzione fu realizzata e resa disponibile proprio dai monaci amalfitani. Ho affrontato il problema nella «Introduzione» a Atanasio l’Athonita, Una città posta sul montecit. Sul tema cf. anche O. Delouis, «Saint Benoît de Nursie à Byzance», in Interactions, emprunts, confrontations chez les religieux (Antiquité tardive − fin du XIXe siècle), a cura di S. Excoffon, D.-O. Hurel, A. Peters-Custot, Saint Étienne 2015, p. 79; A. Piovano, «Monachesimo benedettino e Monte Athos : un incontro fra due tradizioni», in L’Athos e l’Occidente, a cura di A. Manzella, cit., pp. 79-80.

[13] Ad esempio, un certo Leone tradusse in latino il racconto del Miracolo di San Michele a Chonai su invito dei confratelli del cenobio latino del Monte Athos e anche altre traduzioni di testi agiografici potrebbero essere collegate allo stesso monastero (cf. M. Plested, cit., p. 104; V. von Falkenhausen, «Il monastero τῶν Ἀμαλφινῶν», cit., p. 60 n. 16).

[14] Cf. G. E. Demacopoulos, «Crociate, memoria e perdono nella costruzione dell’identità cristiana», in AA. VV., Misericordia e perdono. Atti del XXIII Convegno ecumenico internazionale di spiritualita ortodossa, a cura di L. d’Ayala Valva, L. Cremaschi e A. Mainardi, Qiqajon, Magnano 2016, p. 343.

[15] Un certo «M.» firma al quinto posto un documento del 1169 come abate del «cenobio di Santa Maria degli Amalfitani», e la sua firma occupa il quarto posto dopo quella del Protos e dei rappresentanti di Lavra, Iviron e Vatopedi (cf. Actes de S. Panteleimon, nr. 8).

[16] «Certamente non esiste la minima indicazione nelle fonti di obiezioni athonite nei confronti della liturgia o della teologia della comunità latina. Il monastero amalfitano di Costantinopoli sostenne le pretese papali e la superiorità della liturgia latina nella crisi del 1054, ma non c’è alcuna indicazione del genere per quanto riguarda il monastero athonita» (M. Plested, «Latin Monasticism on Mount Athos», cit., p. 105).

[17] Cf. Demetrio Chomatenos, Ponemata 54, citato in G. E. Demacopoulos, cit. p. 341.

[18] A quanto risulta dalle testimonianze storiche di questo periodo «le comunità monastiche presenti sull’Athos si divisero tra coloro che accettavano, come a Iviron, di commemorare il papa e i monasteri di lingua greca che invece si rifiutavano di farlo» (G. E. Demacopoulos, cit. p. 342).

[19] Citato in V. Von Falkenhausen, «Il monastero degli Amalfitani sul Monte Athos», cit., p. 116.

[20] A. Louf, «I monaci d’occidente e il Monte Athos», in Atanasio e il monachesimo del Monte Athoscit., pp. 275-295.

[21] Cf. Carta costituzionale della Santa Montagna, Sezione I, Art. 5 § 2: «A nessun eterodosso e scismatico è concesso di stabilirsi sulla Santa Montagna (Εἰς οὐδένα δὲ ἑτερόδοξον ἢ σχισματικὸν ἐπιτρέπεται ἡ ἐν Ἁγίῳ Ὄρει ἐγκαταβίωσις)». Si veda a questo indirizzo.


 

* Luigi d’Ayala Valva, monaco del Monastero di Bose, racconta la storia del Monastero benedettino detto «degli Amalfitani» (Amalfion), monastero di monaci latini di origine italiana attestato almeno dagli anni Ottanta del X fino a verso la fine del XIII secolo nella roccaforte del monachesimo «panortodosso» del Monte Athos, la cui esistenza è stata di recente riportata all’attenzione del pubblico dal documentario Amalfion: une présence bénédictine au Mont Athos, co-prodotto da Nomade Production e dal canale televisivo cattolico francese KTO