di Roberto Mela*
In questo succoso volumetto, Enzo Bianchi, il monaco laico, fondatore della Comunità monastica di Bose e apprezzato conferenziere – nonché autore di innumerevoli contributi di taglio spirituale-sapienziale – si sofferma in cinque capitoli sulle strutture portanti del giubileo, seguendone le tracce a livello antropologico, biblico e cristiano-ecclesiale.
Come vivere il giubileo?
Dapprima egli si interroga su come vivere il giubileo. Ne traccia velocemente il messaggio trasmesso dalla Scrittura.
Dio santo chiama alla santità il suo popolo e la santificazione tocca innanzitutto il tempo. Il Signore esige la santificazione del sabato e dell’anno sabbatico. Le varie legislazioni che si succedono nel tempo esigono il riacquisto della libertà da parte dello schiavo e il maggese della terra (Es 21,2-6; 23,10-12). Successivamente si chiede la remissione dei debiti (cf. Dt 15,1-8).
Il libro del Levitico presenta una legislazione del postesilico che ricorda la necessità del riposo della terra, ma anche la confessione di fede in Dio (cf. Lv 25,1-5). Lv 25,8-12 riporta l’unica fonte riguardante l’anno giubilare ogni sette sabati di anni, iniziando con il suono dello shofar nel Giorno dell’Espiazione. Ognuno deve rientrare in possesso dei suoi beni ceduti per debiti o povertà, e non si deve né seminare, né mietere, né vendemmiare. Il fondamento teologico è «non per sempre». Nel giorno delle assoluzioni si fa intendere che il peccato non ha l’ultima parola nella vita dell’uomo, ma la misericordia di Dio. « …se i credenti vivono in questa logica giubilare – afferma Bianchi – , allora sono santi come Dio è santo!
«Il giubileo è dunque attualizzazione e rinnovamento – nella storia – dell’esodo, è dinamica di liberazione e di remissione, è memoriale del primato di Dio e dell’alleanza stabilita con l’umanità, è invito a un’esistenza sabbatica invocante la benedizione di Dio, è profezia dell’instaurazione della signoria di Dio sulla storia. Il messaggio che si ricava da queste leggi – prosegue lo studioso – è comunque un messaggio centrale, non periferico, alla fede nel Dio che si è manifestato a Israele innanzitutto come goel, liberatore, avendo creato il suo popolo con la liberazione dalla terra della schiavitù e dalla tenebra idolatrica» (p. 13).
Una proposta interpretativa per oggi è riassunta da Bianchi in tre urgenze: la terra è di Dio (cf. Lv 25,23) e il giubileo ha una parola da dire a favore della vita della terra e di tutti gli uomini, è un memoriale per tutti.
Inoltre, la liberazione è la volontà di Dio. Il giubileo deve significare liberazione, remissione, condivisione, solidarietà, amore per il prossimo.
L’anno giubilare è posto, infine, in un contesto di remissione dei peccati. Esso si situa nell’orizzonte della conversione, del ritorno a Dio e inizia con i giorni che, dal primo dell’anno fino al giorno delle remissioni, prepara con intensità l’anno giubilare.
«Il giubileo è perciò anche proclamazione del nome di Dio “misericordioso e compassionevole, lento all’ira, grande nell’amore e nella fedeltà” (Es 34,6) – ricorda Bianchi –, esperienza del Dio che perdona, cancella e non ricorda più il peccato commesso dal suo popolo. Occorre, dunque, ritornare a Dio: “Facci ritornare a te, Signore, e noi ritorneremo” (Lam 5,21), come si ritorna a rapporti con gli uomini e con le cose nella giustizia, nella condivisione, nella pace» (p. 17).
Il giubileo nella vita ecclesiale è fondato su Gesù che compie la profezia di Is 61,1-2. Con Gesù è giunto il tempo della salvezza e, dalla morte e risurrezione del Signore alla parusia, è il tempo della salvezza, in cui proclama la remissione dei peccati. Questo annuncio non può ridursi a un ritorno devozionale al sacramento della penitenza, perché è il messaggio centrale del Nuovo Testamento. L’anno giubilare è – secondo Bianchi – uno, e coincide con il tempo che, dall’incarnazione di Gesù, giunge alla parusia.
La remissione dei peccati è la vera eredità che il cristianesimo riceve dall’ebraismo e si compie in Cristo.
A livello ecclesiale, nel giubileo occorre chiedere perdono dei peccati commessi anche verso i fratelli nel passato e nel presente. La Chiesa chiede perdono a Dio, al suo Signore e davanti agli uomini. Ciò che per Bianchi è l’apice delle intenzioni giubilari è la riconciliazione tra cristiani, tra Chiese. Il giubileo deve attivare un cammino concreto verso il Signore, di obbedienza la sua volontà che richiede giustizia sociale ed economica, che vuole comunione e solidarietà, liberazione e libertà.
Il giubileo ha anche una valenza escatologica: è fare memoria del giorno del Signore, della Parusia, del giudizio di Dio in cui ci sarà finalmente la rivelazione e il compimento della giustizia per tutti gli uomini.
I vari aspetti del giubileo
Nel secondo capitolo del volume, Bianchi presenta i vari aspetti del giubileo, ritornando su alcuni temi importanti.
Il giubileo è innanzitutto memoria dell’incarnazione, la presenza di Dio nel cuore dell’umanità. «Questo noi vogliamo dire facendo memoria dell’incarnazione attraverso il giubileo – annota Bianchi –: è un atto che fa parte della nostra stessa fede cristiana, dal momento che noi crediamo ciò che i nostri padri hanno creduto, e il memoriale della nascita, morte e risurrezione di Cristo è già azione per l’oggi, è già porsi al crocevia tra memoria del passato e memoria del futuro atteso, è già annunciare la fedeltà di Dio nel fluire delle vicende umane» (p. 28).
Il giubileo è un sabato per la terra (cf. Lv 25,1-6). Dio riposò al settimo giorno e l’uomo deve riposare e far riposare anche la terra, gli animali, l’intero creato, avendo compassione per la terra, che oggi è malata.
Nel giubileo si invoca il perdono, perché è viva la coscienza che «noi abbiamo peccato come i nostri padri» (Sal 106,6). Solo la Chiesa ha una personalità unica che attraversa i secoli e le epoche come una mistica persona. Non siamo migliori dei nostri padri.
Il giubileo abbraccia la santificazione del tempo, dello spazio ma anche del corpo. Si fa memoria dei martiri del passato e del presente, seme di nuovi cristiani.
L’impegno imprescindibile deve essere anche l’ecumenismo, perché l’unità dei cristiani offre credibilità all’annuncio e alla testimonianza di fronte alle genti: «Da questo sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).
Nel giubileo non può mancare la gioia cristiana, che è una responsabilità del credente: «Rallegratevi sempre nel Signore, ve lo ripeto: rallegratevi» (Fil 4,4). Il Vangelo è racchiuso tra l’annuncio della grande gioia per la nascita del Salvatore e la gioia scaturita dal sepolcro vuoto all’alba della risurrezione.
La gioia cristiana è quella indicibile e gloriosa di chi ama Cristo e già vive con lui nel segreto della fede. Essa consente al cristiano di amare il Signore e i fratelli. È una gioia che si sperimenta, «ma è anche gioia veniente alla quale acconsentire, gioia piena nell’incontro definitivo, faccia a faccia con il Signore. […] “Mostri il Signore la sua gloria: e voi credenti fateci vedere la vostra gioia!”» (cf. Is 66,5) (pp. 39-40).
Pellegrini verso il regno
Siamo al terzo capitolo del libro. Segno tipico del giubileo è la santificazione attraverso lo spazio. Il pellegrinaggio è metafora dell’intera esistenza umana, che diventa anche il «luogo» in cui il cristiano è chiamato alla santità. È il percorso che ha come meta visibile un «luogo santo», ma come scopo la santificazione del pellegrino, figlio perduto che ritrova la propria santità nel cammino verso la santità del Padre che lo attende.
Il pellegrinaggio ha una dimensione paradossale: ci si mette in moto per trovare stabilità, saldezza. Nei salmi si cammina verso Gerusalemme, radice di tutti i popoli. Ma il cammino si fa verso sé stessi; si risale alle proprie origini, a ciò che ci fa sussistere. Il viaggio più lungo è quello interiore. Gli elementi del pellegrinaggio sono il movimento, l’uscita dal proprio mondo, prospettive e orizzonti per andare verso una meta chiara fin dall’inizio: lo «spazio santo», l’«alto luogo», là dove abita il Santo. «[In] pellegrinaggio non si va, si torna verso colui che ci precede» (p. 42).
La dimensione biblica del pellegrinaggio comprende un cammino di un certo tempo verso un luogo simbolicamente centrale.
All’interno della Scrittura l’esperienza del pellegrinaggio è illuminata dal proprium della rivelazione del Dio Uno, che si rivela nella storia per cercare un’alleanza con l’uomo che culmina nella manifestazione del suo volto di Dio personale in Gesù Cristo, «via» dell’uomo.
La Bibbia conosce e regola il pellegrinaggio, che, a volte, è anche contestato radicalmente dai profeti (cf. Am 5,5-6).
La Bibbia prevede tre pellegrinaggi annuali a Gerusalemme, ma ciò che è centrale è l’autenticità della relazione con Dio, in nome della quale il pellegrinaggio è comandato ma anche contestato radicalmente.
Per comprendere il legame profondo tra fede dell’uomo biblico ed esperienza del cammino, e del cammino orientato verso un fine (com’è il pellegrinaggio) occorre guardare alle esperienze fondanti che sono diventate figure essenziali della fede biblica. A partire da esse si possono delineare alcuni aspetti della configurazione dinamica di essa.
Bianchi ricorda l’esempio dei patriarchi, stranieri e pellegrini (cf. Abramo). Nel NT Dio si fa straniero in Cristo per incontrare l’uomo e lo stesso itinerario di Cristo da Dio verso l’uomo è un pellegrinaggio.
A livello ecclesiologico la stranierità significa per Bianchi rifiutare la deriva delle Chiese nazionali e accogliere l’altro, lo straniero, e riconoscere che solo a partire dalla confessione che noi siamo stranieri è possibile un’accoglienza evangelicamente significativa.
Una seconda esperienza fondante è quelle dell’esodo. Essa comprende tre momenti: l’uscita da, il passaggio attraverso, l’entrare in.
Dalla casa di schiavitù, attraverso il deserto, si va verso la terra, che si configura però più come scopo, meta, futuro che genera e suscita il dinamismo del presente, dunque più come promessa e come senso che come possesso.
La Lettera agli Ebrei applica ai cristiani il cammino dei figli di Israele, leggendo tipologicamente degli avvenimenti: la meta è un riposo, che sta davanti al credente e che richiede al cristiano fede e speranza, perseveranza e fedeltà, vigilanza e lotta contro le tentazioni, essenzialità e povertà, dimensioni che contrassegnano anche il cammino di Cristo sulla terra. Il credente cammina sulla via che è Cristo, verso una meta escatologica. Lo fa con umiltà e abbassamento, come Israele nel deserto.
Infine, la Scrittura ci ricorda che il cammino del credente è volto all’incontro con Dio, al ritorno a Dio. Il movimento di cui è sacramento è quello della conversione (teschuvà, metanoia).
Nel pellegrinaggio cristiano autentico, al cammino materiale dell’homo viator deve corrispondere il cammino del ritorno a Dio, suscitato e voluto dal Signore che chiama: questo cammino è dunque un dono, è la risposta a una chiamata, alla preghiera che Dio rivolge a noi uomini.
Dio ci attende con le braccia aperte al termine del viaggio, ma è anche all’inizio del cammino. Riconosciamo di essere schiavi degli idoli e ci avviamo verso Dio avvolti dal suo desiderio ardente della comunione con noi. Amore folle che ci prende su di sé mentre ancora siamo peccatori. Gesù chiede la conversione non per sfuggire a un castigo, ma perché il Regno di Dio si è avvicinato (cf. Mc 1,15).
L’itinerario di conversione passa anche attraverso il riconoscimento dei peccati commessi e la loro confessione davanti a Dio e al suo popolo. «Con la venuta salvifica di Cristo – annota Bianchi – nessun uomo può più essere separato dall’amore di Dio (cf. Rm 8,31-39) e la remissione dei peccati, chiamata anche indulgenza, appare come l’esperienza possibile della salvezza. Purtroppo in questi decenni, qua e là nello spazio ecclesiale, l’annuncio della remissione dei peccati è dimenticato o taciuto o reso periferico all’annuncio cristiano, mentre chi conosce la fede apostolica sa che esso è al centro del messaggio, è il vangelo, la buona novella per eccellenza» (p. 51).
La consapevolezza del male compiuto non deve diventare angoscia, né cinica adesione alla realtà, ma occasione di invocazione di misericordia, di salvezza. Infatti, «se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore» (1Gv 3,20).
Papa Francesco, come Giovanni Paolo II, incentra il documento dell’indizione del giubileo sulla misericordia di Dio. Occorre andare in tutte le periferie esistenziali, perché nessuno sia privo della possibilità di ricevere il perdono e la consolazione di Dio (cf. Spes non confundit 23).
Bianchi ricorda, infine, che all’inizio del giubileo sta il gesto dell’apertura della porta. Quando si trova una porta chiusa, si prova una stretta al cuore, si resa inoperosi, si grida per chiamare qualcuno, si bussa, si cerca di aprirla. C’è lo sgomento per la comunicazione impossibile. La porta indica, però, anche che al di là c’è uno spazio diverso, in cui noi vogliamo entrare per accedere a una dimensione «altra».
La porta ha un significato positivo per il cristiano: «porta del cielo» indica la frontiera tra Dio e noi, ma «in cielo» Dio c’è e ci attende. Gesù si è definito «la porta», l’accesso al Padre. A livello antropologico la porta protegge l’intimità ma indica pure l’accoglienza, una volta aperta.
La porta aperta al prossimo lo rende vicino, si spalanca al bisogno dell’«ultimo». I padri del deserto ammoniscono che la prima porta da custodire è quella del nostro cuore. La porta del cuore si può aprire per accogliere l’altro nello spazio più intimo, per condividere il calore della fraternità.
L’immagine della porta ci interpella sullo spazio ecclesiale, sull’accesso a quella dimora di Dio in mezzo agli uomini di cui la Chiesa è segno. Tra le Chiese sorelle le porte sono chiamate ad aprirsi alla riconciliazione.
Il pellegrinaggio nel cristianesimo
Nel quarto capitolo, Bianchi torna a riflettere sul significato del pellegrinaggio per il cristianesimo. Il pellegrinaggio si distingue dal viaggio. Il cristiano è peregrinus sulla terra. Tappe decisive del pellegrinaggio sono la partenza, il cammino, la meta e il ritorno. Sono tappe decisive per colui che vive un’esperienza significativa e apportatrice di vita.
Lo scopo del pellegrinaggio è un rinnovamento della vita spirituale, un ritorno alle fonti della propria fede. Può avere un impegno penitenziale con digiuni e atti penitenziali. Spesso si fa il pellegrinaggio per invocare la salute o per affermare la propria identità a livello religioso, culturale e politico. C’è anche il bisogno di stare insieme e ricercare la communitas. Si cerca il senso della propria vita, di riattualizzare le ragioni per cui si vive e si è impegnati.
Il pellegrinaggio cristiano ha le radici nell’Antico Testamento. Si saliva a Gerusalemme per celebrare le feste e incontrare Dio. Gesù va al tempio per essere offerto al Signore e ci ritorna da ragazzo per diventare «figlio del comandamento». La salita decisiva a Gerusalemme è fatta da Gesù con risolutezza (cf. Lc 9,51).
Con l’incarnazione non c’è più un luogo santo, il tempio. Gesù Cristo è l’unico luogo di salvezza per tutta l’umanità. Questo non vuol dire che il cristiano non deve più compiere l’esperienza antropologica del pellegrinaggio.
Bianchi esamina le tappe del pellegrinaggio. C’è, innanzitutto, la decisione di farlo, la scelta della meta, e la partenza con l’uscita dal luogo abituale di vita. Il cammino e il viaggio fanno apprezzare nuove conoscenze di luoghi e di persone.
La «mistica del cammino» abbraccia la dimensione simbolica che narra la transitorietà della vita, il provvisorio e il precario, il gusto della scoperta, la ricerca dell’altrove e della compagnia di altri.
Il cammino suggerisce soprattutto la ricerca di sé, l’esercizio della vita interiore. Il cammino diventa cammino spirituale nella scoperta di sé, delle ragioni personali, del senso della vita. «Il viaggio più lungo, che non finisce mai, è il viaggio interiore» (Dag Hammarskiöld, cit. a p. 65).
La terza tappa è la meta, il «luogo alto». È un luogo rivelativo della presenza di Dio o dei suoi santi, un luogo diventato «preghiera», uno spazio che attrae, dotato di energie positive.
Giunti alla meta si visita, si contempla, si prega, si visitano i luoghi memoriali della salvezza. I salmi delle salite ricordano la preghiera, il ringraziamento, l’alzare gli occhi al cielo, la confessione di appartenere al popolo di Dio, il canto e la dolcezza del vivere insieme.
La qualità del pellegrinaggio si decide nella sua capacità di far «accadere» il ritorno al Signore, la conversione, il rinnovamento della vita di sequela del Signore. Valeva la pena?, a volte ci si domanda. Risponde Pessoa: «Tutto vale la pena, se l’anima non è angusta/Tudo vale a pena se a alma não è pequena».
Il ritorno può essere preceduto da una benedizione da parte di coloro che curano i luoghi santi. È un invio alla missione, a testimoniare che, nella pace di Cristo, c’è la vita piena: «Andate ad annunciare le meraviglie operate da Dio; andate per essere suoi testimoni nella compagnia degli uomini».
Ritornare non significa voltarsi indietro ma una nuova forma di abitare il quotidiano, di vivere nella comunità e di stare in mezzo agli uomini. Spesso ci si porta via un ricordo, perché il visibile ci faccia aprire all’invisibile.
Il pellegrinaggio deve anche far sentire il dramma del «pellegrinaggio» dei poveri della terra, il dramma di chi compie viaggi verso la vita, il pane, la libertà, abbandonando terre dove imperversano povertà, guerre, fame e oppressione.
Mentre ci si decide per l’apertura all’accoglienza, il pellegrinaggio diventa anche simbolo del cammino di ciascuno nel duro mestiere di vivere, percorso in vista dell’incontro definitivo con Dio. Nella morte si incontra il Signore, dopo aver percorso deserti o pascoli verdeggianti…
Aprire un varco alla speranza
L’ultimo capitolo del libro rielabora una riflessione sulla speranza compiuta da Bianchi alcuni anni fa. Nei tempi angoscianti attuali c’è bisogno enorme di speranza ben fondata. L’autore si interroga su che cosa significa sperare, che cosa sperare e come sperare.
Che cosa significa sperare?
La speranza è «il frutto di un attento discernimento, un’attesa saldamente fondata, una perseveranza che si nutre di responsabilità – scrive Bianchi –. L’uomo non è un dato, ma un divenire, è un essere che ha coscienza della dimensione temporale che lo costituisce; il suo corpo è uno spazio segnato dal tempo, è il libro del tempo che trascorre: in questa scrittura temporale è essenziale l’orientamento verso il futuro, la progettualità di sé, lo stabilire uno scopo e l’operare per esso, così da trovare una direzione, un senso» (p. 73). «Vivere senza speranza è impossibile», afferma F. Dostoevskij.
Vivere di piccole speranze, quotidiane, senza apertura oltre l’attimo presente rischia di far nutrire speranze vuote. «Così non viviamo mai – afferma Blaise Pascal – ma aspettiamo di vivere, e, preparandoci sempre a essere felici, inevitabilmente non lo siamo mai» (cit. a p. 74).
«In ogni caso, l’essere umano è naturalmente spinto a prendere posizione di fronte al futuro – afferma Bianchi –, a scommettere sull’avvenire; ma ciò è possibile solo attraverso l’apertura all’altro, ossia attraverso un’intersoggettività in cui la speranza personale è strettamente connessa a quella dell’altro: la speranza è frutto di una relazione viva, è incentrata su un noi, è comunionale. Essa non è mai egocentrica, in quanto radicata costitutivamente in un movimento di apertura, di fiducioso affidamento a un altro: vale, in certo modo, per ogni speranza il fatto che “la fede è fondamento delle cose che si sperano” (Eb 11,1). La speranza accompagna il divenire della vita e lo sviluppo psicologico dell’esistenza, rende possibile l’apertura all’inedito di una storia d’amore: ci si fidanza scambiandosi un anello chiamato “fede”, pegno della speranza in un futuro di felicità condivisa…» (pp. 74-75).
Secondo l’autore, il problema non è quello di definire la speranza, ma di viverla. Essa è «ciò che consente all’uomo di affrontare giorno dopo giorno il mestiere di vivere, di camminare in posizione eretta sulla strada della vita» (p. 75).
La speranza si configura come un’attiva lotta contro la disperazione e, in particolare, con l’acedia, lo spiritus tristitiae, uno dei peccati che conducono alla morte, un peccato contro lo Spirito. Se la fede si riceve in dono, la speranza è una decisione personale che impegna lo sforzo della propria volontà. Occorre decidere di sperare, concepire una decisione che genera la speranza e la fa nascere.
La speranza «nasce quando si prende posizione riguardo al futuro, quando si pensa che un avvenire sia ancora possibile per un individuo, per una società, per l’umanità intera – afferma Bianchi –: si tratta di vedere oggi per domani, di credere oggi possibile ciò che si compirà domani.
Scegliere di sperare significa decidersi per una responsabilità, per un impegno riguardo al destino comune, significa educare le nuove generazioni trasmettendo loro la capacità di ascoltare e di guardare l’altro: quando due esseri umani si ascoltano e si guardano con stupore e interesse, allora la speranza può nascere e crescere» (p. 76).
Che cosa sperare?
Sulla laboriosa arte della speranza umana si innesta anche la speranza cristiana. «Gesù Cristo nostra speranza» (1Tm 1,1), «Gesù Cristo nostra comune speranza», affermano il Nuovo Testamento e la tradizione patristica. Fede e speranza «sono strettamente connesse tra loro – ricorda l’autore – ma è proprio la speranza che rende perseverante la fede e rende possibile l’amore: vivendo nell’amore e nella fede, i cristiani attendono la piena realizzazione di ciò che ancora non vedono, e si esercitano a sperare le realtà invisibili (cf. 2Cor 4,18; Eb 11,27). Essi, infatti, sono “stranieri e pellegrini” (1Pt 2,11) in questo mondo, e, pur restando fedeli alla terra, cercano con impazienza le cose dell’alto (cf. Col 3,1-2)» (p. 77).
La speranza cristiana partecipa a quella degli uomini, ma anche a quella della creazione. Si invoca l’incontro tra amore e verità, pace e giustizia. Si aspettano nuovi cieli e terra nuova nei quali avrà stabile dimora la giustizia (cf. 2Pt 3,13). Chi spera che il male non attanagli più l’umanità e il creato, che l’amore sia più forte della morte, partecipa al gemito dell’intera creazione (cf. Rm 8,19-25). Animato da questa umanissima speranza, il cristiano invoca la venuta salvifica di Gesù Cristo e la comunione piena con Dio.
I discepoli di Cristo sperano nella piena umanizzazione di tutti gli uomini, in una salvezza che trasfiguri l’umanità segnata dalla miseria, dal male, dalla morte. Sperano che la terra diventi finalmente la città edificata armoniosamente e ri-collocata nel giardino, mediante la capacità degli uomini di vivere la pace attraverso la giustizia e il perdono reciproci.
Cercando lo specifico della speranza cristiana, Bianchi scrive: «… il contenuto profondo della speranza è, in definitiva, uno solo: la speranza che la morte non abbia l’ultima parola. Ne aveva già parlato il profeta Isaia: “Il Signore eliminerà la morte per sempre, asciugherà le lacrime su tutti i volti” […]. In quel giorno si dirà: “Ecco il nostro Dio, abbiamo sperato in lui e ci ha salvati. Il Signore è la nostra speranza, esultiamo di gioia per la sua salvezza!”» (Is 25,8-9) (p. 79).
I cristiani mettono la loro speranza in Gesù morto e risorto, perché «Cristo in noi è la speranza della gloria». A partire dalla risurrezione di Gesù, lo specifico del cristianesimo è «la speranza nella risurrezione dai morti» (At 23,6), «la speranza della vita eterna» (Tt 3,7). «Se abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini» afferma Paolo (1Cor 15,19). La speranza si volge alla comunione piena con Cristo e con Dio nel regno.
La speranza nella risurrezione è il proprium della fede cristiana. Questo è il grande tesoro della beata speranza cristiana: la vita è più forte della morte, l’amore è più forte dell’odio, la fedeltà di Dio è più forte dell’infedeltà dell’uomo. Di questa speranza i cristiani sono chiamati a rendere testimonianza. Questa va resa con dolcezza e timore di Dio, con una buona coscienza (cf. 1Pt 2,12; 3,15).
Come sperare?
Si deve sperare senza evadere dalla realtà, ricorda Bianchi. La speranza cristiana non è unicamente protesa verso l’aldilà né si oppone schematicamente presente umano e futuro oltre la storia, ma è «passione per ciò che è possibile» (S. Kierkegaard, cit. a p. 81).
«[L]a speranza è una fattiva e realistica ricerca nell’oggi di ciò che domani sarà realtà piena, ma che già ora può fare capolino nel tessuto della nostra quotidianità – annota l’autore –. La speranza si nutre di convergenza di orizzonti, di desiderio e progetto di comunità, di pratica del dialogo in vista della comunione: resistere alla barbarie che pare crescere indisturbata significa già preparare un domani segnato da una migliore qualità della convivenza umana; lottare per la giustizia e la pace attraverso la pratica della riconciliazione tra popoli e gruppi in conflitto significa già rendere altra la terra che oggi abitiamo» (p. 82).
La speranza è contrassegnata dalla gioia. Fondata sulla Pasqua del Signore, la speranza infonde a sua volta nel credente la gioia, lo porta cioè a quella «gioia che si prova nella tranquilla certezza della speranza» (Agostino, cit. a p. 82). La gioia è coestensiva alla fede cristiana, è una responsabilità che discende dall’evento pasquale con cui Dio ha resuscitato Gesù Cristo e ha dischiuso agli uomini la speranza della risurrezione.
«La gioia abita nel profondo dell’animo cristiano e consiste nella sua “vita nascosta con Cristo in Dio” (cf. Col 3,3) – scrive l’autore –; è la gioia indicibile e gloriosa di chi ama Cristo e vive con lui nel segreto della fede (cf. 1Pt 1,8-9); è la gioia a caro prezzo di chi assume la propria condizione di finitezza e fa del suo ineluttabile scendere verso la morte una salita al Padre, un cammino pieno di speranza verso il Signore, verso l’incontro con Colui il cui volto ha tanto cercato nei giorni della sua esistenza» (p. 82).
Insieme alla gioia, la speranza necessita anche di perseveranza, come scrive Paolo in Rm 5,3-5.
Occorre sperare per tutti. «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati» (cf. 1Tm 2,3-4). Il cristiano spera per tutti, giusti ed empi, buoni e malvagi, intelligenti e insipienti; spera anche per tutte le creature, animate e inanimate, fino a desiderare la trasfigurazione di tutta la creazione in Cristo. Un cuore misericordioso «non può sopportare di udire o vedere un danno o una piccola sofferenza di qualche creatura» (Isacco di Ninive, cit. a p. 84). Si spera anche per i nemici della verità.
Belle le righe di Kierkegaard: «Sono letteralmente certo che ogni altro da me sarà facilmente beato, soltanto io no. Dire agli altri che sono dannati in eterno è cosa che non posso fare. Per me le cose stanno così: gli altri tutti saranno beati, ciò è abbastanza certo. Solo per me la situazione potrà essere critica» (cit. a p. 84).
Splendida infine la pagina dell’Archimandrita Sofronio, in Silvano del Monte Athos: «Io provo compassione per tutti gli uomini che soffrono agli inferi; ogni notte prego per loro ed è tale il dolore della mia anima che compiango anche i demoni […] Parlai di questo fatto a un uomo spirituale […] ed egli sospirando mi rispose: “Se fosse possibile, io li porterei tutti fuori dall’inferno e solo allora la mia anima sarebbe in pace e potrebbe gioire”» (cit. a p. 85).
Prima di accludere in Appendice alcune testimonianze patristiche e una pagina di citazioni sulla speranza, Bianchi conclude la sua opera con una riflessione arricchita con una citazione dello Pseudo-Crisostomo, Omelia sulla Pasqua: «Se Gesù ha raggiunto quelli che stavano là dove non c’è speranza, dove c’è solo disperazione, significa che ormai non esiste più alcuna situazione umana che non possa essere salvata dalle energie del Risorto! Sì, la salvezza di Gesù, Signore universale (cf. Fil 2,10; 1Cor 15,20-28), arriva fino all’inferno, là dove apparentemente non vi è più speranza: è un altro modo per dire che la morte non è l’ultima parola, è la grande speranza della salvezza per tutto e per tutti. Con audacia possiamo dunque giungere a sperare che anche l’inferno sia svuotato, come canta la liturgia bizantina nel mattino di Pasqua: “Incontrandoti laggiù, o Cristo, l’inferno è stato amareggiato perché è stato annientato; è stato amareggiato perché è stato sconfitto […]. Dov’è, o morte, il tuo pungolo? Dov’è, o inferno, la tua vittoria (cf. 1Cor 15,55)? Cristo è risorto e tu sei stato precipitato!”» (p. 86).
Il volume di Enzo Bianchi è davvero un prezioso “lessico” per il cammino giubilare.
* In Settimana News 23/01/2025