VI domenica del tempo Ordinario
di ENZO BIANCHI
Mc 1,40-45
In quel tempo, 40venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». 41Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». 42E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. 43E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito 44e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va', invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». 45Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.
Nel vangelo di questa domenica leggiamo un racconto che ha un inizio improvviso, senza precisazione di tempo e di luogo, un racconto che facilmente ci appare attuale, collocabile qui è ora: è l’incontro tra Gesù e un uomo affetto da lebbra.
Il lebbroso era allora ed è ancora adesso un malato ripugnante, a tal punto che lo si qualificava come un uomo morto. Per un giudeo, poi, la lebbra era segno di un preciso castigo di Dio, una malattia mediante la quale erano stati colpiti per i loro peccati la sorella di Mosè, Miriam (cf. Nm 12,9-10), il servo del profeta Eliseo (cf. 2Re 5,27) e altri peccatori. Grande è l’orrore, terribile la reazione di fronte a questa malattia che devasta fino alla putrefazione della carne il volto e il corpo dei malati.
Essendo la lebbra contagiosa, esigeva che il malato fosse escluso dalla convivenza, segregato in qualche luogo deserto e riconoscibile dal grido che doveva emettere qualora vedesse qualcuno avvicinarsi a lui: “Sono impuro! Sono impuro!” (cf. Lv 13,45-46). Un lebbroso appariva dunque come una persona senza possibilità di relazione e di comunione, né con Dio né con gli uomini. Non era solo un malato, ma un “impuro”, come un cadavere. Toccare una persona in quella condizione significava escludersi da qualsiasi atto religioso. Ci si poteva riaccostare al lebbroso solo dopo la scomparsa in lui dei sintomi del male e dopo la sua “purificazione”: questa doveva essere riconosciuta da un sacerdote il quale, con un atto religioso, poteva reintegrare la persona nella comunità dei credenti.
Ed ecco l’incontro tra Gesù e un lebbroso che viene a lui, gli si inginocchia davanti e lo supplica: “Se vuoi, tu puoi purificarmi!”. Di quest’uomo non sappiamo nulla, né possiamo valutare la sua vita e la sua fede. Certamente ha fiducia in Gesù, che gli pare affidabile; da Gesù è attratto come da un uomo che può fare qualcosa per lui. Con audacia, più che con fede, si avvicina dunque a quell’uomo che merita ascolto, fiducia, forse anche adesione.
E Gesù davanti a costui ha una reazione: proprio perché lo guarda e sa cosa significa questa malattia, proprio perché sente il fetore delle sue piaghe e vede il suo viso stravolto, il suo corpo devastato, “va in collera” (orghistheís), adirato per l’intollerabilità del male e del destino che pesa su quest’uomo. Sì, Marco ci narra un Gesù collerico, che, proprio perché è capace di passione, ha una reazione di collera; ci descrive quanto Gesù senta intollerabile una tale situazione per un uomo che è suo fratello, uomo come lui, uguale a lui nella dignità di persona umana. Ma si faccia attenzione alle parole di Gesù. In risposta alla supplica dell’altro, egli non risponde: “Io lo voglio e ti purifico!”, ma: “Io lo voglio, sii purificato!” (passivo divino). Gesù lascia il posto a colui che purifica, Dio: non pretende di occuparlo, ma proclama il suo desiderio e la sua volontà che quell’uomo non debba più essere separato, ma possa essere purificato, guarito.
L’evangelista non sapeva però che, usando alcune espressioni che testimoniano l’umanità vera e concreta di Gesù, poteva destare stupore, opposizione e giudizio su Gesù stesso. Sempre, infatti, soprattutto tra gli uomini religiosi, ci sono anime mefitiche, talmente tese a una santità formale che si scandalizzano della passione di Gesù e della sua collera. Questi religiosi sono sempre in scena. Per loro Gesù avrebbe dovuto prima pensare a cosa prevede la Legge, poi mostrare il suo sentimento conformemente a ciò che la Legge comanda.
E invece Marco, volendo mostrare in modo chiaro e comprensibile i comportamenti di Gesù, dice ciò che per alcuni non è sopportabile: Gesù va in collera, qui come altrove (cf. Mc 3,5: di fronte ai farisei; 10,14: di fronte ai suoi discepoli). Sì, Gesù andò in collera, perché sapeva vivere il conflitto e ribellarsi contro il male, la malattia, la situazione di schiavitù e di segregazione che rendeva come morto quell’uomo. Non era cosa giusta, ed ecco allora la collera di Gesù!
Qualche scriba, però, pensò di correggere questa espressione, che in alcuni manoscritti diventò: “fu preso da compassione” (splanchnistheís; cf. Mc 6,34 e 8,2: di fronte alle folle). Così le persone a bassa frequenza di sentimenti ne sono state soddisfatte… In verità anche nell’espressione “andò in collera” c’era la passione della compassione, ma con questa correzione, che la versione italiana segue, il comportamento di Gesù sembrerebbe forse più accettabile, ma meno capace di esprimere i suoi sentimenti.
In quello scatto d’ira, Gesù prende la mano di quell’uomo, lo tocca, entrando così in relazione, anzi in comunione con lui. Mano lebbrosa nella mano di Gesù, contatto vietato dalla Torah, stretta di una carne giudicata demoniaca, e il suo gesto viene accompagnato dalla parola: “Io lo voglio, sii purificato!”. “E subito” – annota Marco – “la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato”: quel lebbroso è sanato, la sua fiducia in Gesù ha ottenuto il risultato sperato, la sua preghiera di compassione è stata esaudita. Non è più uno scomunicato, anzi è una persona che è entrata in piena comunione con Gesù, il quale ha eliminato quel male così orribile ed escludente. Questo dovrebbe essere l’atteggiamento del cristiano verso i malati e verso i peccatori, quando la cura e la misericordia diventano mano nella mano, occhio contro occhio, volto contro volto, un bacio come quello che Francesco d’Assisi seppe dare al lebbroso quale segno dell’inizio di un’altra visione e dunque di un’altra vita.
Gesù dice anche: “Va’ a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro”. Ricorda le prescrizioni della Legge, chiede al malato purificato di osservarle, ma si preoccupa anche che sia data testimonianza ai sacerdoti e agli addetti al tempio. Non sarebbero necessarie queste “osservanze”, perché l’azione purificatrice di Dio è avvenuta con efficacia, ma Gesù insiste su di esse affinché anche al tempio si sappia la novità da lui portata con la sua predicazione e la sua azione.
Ma dopo la guarigione ecco ancora un Gesù che non piace alle persone “religiose” che si nutrono solo di miele. Il testo dice che Gesù, “sdegnandosi con lui, lo cacciò via subito”. Avvenuta la liberazione, Gesù non sta lì a prendere complimenti, a chiedere che si guardi e si constati la sua azione: non è infatti mai tentato dal narcisismo che attende il riconoscimento per il bene fatto e, a costo di sembrare burbero e scortese, si sdegna e scaccia quell’uomo da lui guarito, ammonendolo di non dire niente a nessuno. Gesù non vuole essere riconosciuto per uno che fa miracoli, non vuole che lo acclamino per delle azioni prodigiose, e soprattutto vuole che il segreto riguardo alla sua identità di Messia sia svelato e proclamato quando sarà appeso alla croce. Solo allora è lecito, a chi ha capito Gesù, dire che egli era buono, che era giusto (cf. Lc 23,47), che era il Figlio di Dio (cf. Mc 15,39; Mt 27,54).
Gesù è discreto di fronte alla gente, fa silenzio e chiede di fare silenzio per non destare l’applauso, conosce l’arte della fuga nei luoghi deserti per sottrarsi al facile consenso degli altri; ma va anche in collera, si sdegna visibilmente di fronte alla sofferenza, alla menzogna, al misconoscimento della verità, alla pigrizia e alla vigliaccheria delle persone. E così da tutte le città vengono a cercare, a vedere, a pregare Gesù. Successo? Sì, ma successo da cui Gesù sa difendersi, perché è consapevole che ciò che egli compie lo realizza solo prestando occhi, mani, voce al Padre, a Dio che lo ha inviato.