08 luglio 2007
Articolo di ENZO BIANCHI
La religione, può svolgere una preziosa funzione di riconciliazione, di rappacificazione in vista di un ordine mondiale contrassegnato dalla coesistenza, il confronto
La Stampa, 8 luglio 2007
Paiono purtroppo tramontati i tempi in cui le autorità di riferimento in tema di religioni erano studiosi del calibro di Mircea Eliade e René Girard: ormai non passa giorno che un matematico impertinente o un giornalista arguto o un “ateologo” autodidatta non pubblichi un volume – naturalmente agile, brillante, polemico, accattivante e, cosa che non guasta, di successo – in cui viene spiegato con ironia pari all’approssimazione “perché non possiamo dirci cristiani” oppure “come la religione avvelena ogni cosa”; così i lettori, che si suppone fossero fin lì ignari, sono informati di tutte le nefandezze compiute nella storia su istigazione delle religioni, preferibilmente dei monoteismi o del cristianesimo. Questo profluvio di luoghi comuni provoca sovente reazioni stizzite, immiserisce il dialogo riducendolo a scambio di battute a effetto e innesca una sequenza potenzialmente infinita di reazioni dello stesso tenore.
Ma qualsiasi elenco di misfatti compiuti in nome della religione – che per quanto riguarda la chiesa, e a differenza di altre istituzioni o ideologie, sono anche stati oggetto di pentimento e di richiesta di perdono – non mi pare possa fondare l’accusa di autoritarismo, violenza, fanatismo, integrismo, intolleranza rivolta oggi con sorprendente leggerezza alla forma monoteista in quanto tale. Il problema infatti non risiede nel monoteismo in sé, ma nel suo uso: è questo che lo può rendere – e storicamente lo ha anche reso – funzionale a un regime politico e dunque fattore di inimicizia e divisione tra gli uomini. La deriva ideologica del fatto religioso è antica quanto le religioni ed è sempre in agguato: lo stesso cristianesimo conosce oggi la tentazione della sua funzionalità sociale nella forma della “religione civile”. Deriva ideologica, sempre potenziale fomentatrice di violenze, che si registra quando il connotato di evento della religione passa in secondo piano rispetto all’aspetto istituzionale, quando si strappa l’immaginario religioso dal suo orizzonte mistico per subordinarlo a un orizzonte etico.
La religione, infatti, ha un ruolo fondamentale per l’unità integrativa di ogni cultura e questo ruolo a volte ha accentuato conflitti, soprattutto tra monoteismi, ma può svolgere una preziosa funzione di riconciliazione, di rappacificazione in vista di un ordine mondiale contrassegnato dalla coesistenza, il confronto, il dialogo. Sarebbe quindi auspicabile non minimizzare e, ancor meno, ridicolizzare le religioni, ma prestare attenzione alla forza e all’efficacia che possiedono grazie alla loro memoria del passato, alla richiesta di responsabilità nel presente e all’indicazione di un destino collettivo: queste loro qualità possono contribuire ancora oggi a un’autentica umanizzazione anche in società ipersecolarizzate.
Così in Europa esiste sì un’eclisse delle istituzioni religiose come le chiese, il cristianesimo è sì diventato minoritario, ma la sua presenza, la sua forza e la sua eloquenza non si misurano sulla “pratica liturgica”: c’è un modo di stare nel mondo, di mettersi in rapporto con gli altri e la realtà circostante che risente fortemente del cristianesimo. Ed è sul piano dell’autenticità della testimonianza che si manifesta come i monoteismi possono intrattenere con il potere rapporti non solo di connivenza o di giustificazione, ma anche di critica o contestazione. Non è questa la lezione dei profeti biblici e dello stesso Gesù di Nazaret? Non è ciò che hanno vissuto i martiri cristiani di ogni epoca? E nell’islam non troviamo forse figure come quella di Hallâj, consigliere di corte, incapace di qualsiasi piaggeria al punto da essere messo a morte come martire? E come dimenticare, in tempi più vicini a noi e all’interno del monoteismo ebraico, la lotta di Martin Buber contro la strumentalizzazione politica della teocrazia biblica presente nel sionismo politico?
Ma un elemento fondamentale – che mi pare carente nell’attuale dibattito a basso prezzo sui vari “libri neri” ascrivibili alle diverse religioni e ideologie – è la consapevolezza che i testi sacri delle religioni non nascono in un mondo “vergine” da violenze, sopraffazioni e comportamenti che definiremmo disumani: non viene da loro l’istigazione a delinquere. Al contrario, si rivolgono all’essere umano cercando di spiegare l’inspiegabile propensione al male che si scontra con l’anelito al bene, tentando di arginare la violenza limitando o “nobilitando” i casi in cui essa viene usata e le modalità stesse per esercitarla: ne sono esempi classici, ma ben lungi dall’essere gli unici, il salvacondotto garantito a Caino per porre un limite alla vendetta o la cosiddetta “legge del taglione” che proporziona la pena alla colpa.
La religione allora non “avvelena” un primordiale corpo sano dell’umanità, non contamina delle idee immacolate, non deteriora un organismo dalle “magnifiche sorti e progressive”, ma piuttosto cerca di cogliere le radici profonde delle derive cui l’essere umano di ogni tempo e di ogni latitudine è costantemente tentato di abbandonarsi, fornisce un “farmaco” per combatterle e attenuarne le conseguenze, offre un criterio di discernimento in vista di una vita degna di tal nome. La violenza che troviamo nei testi sacri – e che storicamente è stata anche propulsore di comportamenti esecrabili – è la violenza che si annida nel cuore umano: è scritta nel libro perché è incisa nell’intimo della persona, ma non è essa il destino che attende l’uomo, non è la sua verità, non è la sirena al cui fascino deve inesorabilmente arrendersi il viaggiatore sui sentieri della storia.
Non si tratta allora di rinfacciarsi reciprocamente le nefandezze commesse da credenti monoteisti, atei di diverse ideologie, vecchi e nuovi politeisti, ma piuttosto di riaffermare, ciascuno mediante il proprio universo di pensiero e di convincimenti e facendo memorie di splendori e miserie che lo caratterizzano, che ogni essere umano è più grande del male che è capace di compiere e che l’umanità si innalza al livello di cui è degna nonostante le continue contraddizioni a ciò che essa stessa considera “bene”.
Enzo Bianchi
Pubblicato su: La Stampa