5 aprile 2003
La giustizia è necessaria perché possa esserci pace: quando la giustizia è violata, ferita, indubbiamente essa va ristabilita. Occorre disarmare la mano del carnefice, occorre rendere inoperante il soggetto della violenza mortifera, occorre anche apprestare una difesa delle vittime o di chi vittima potrebbe diventare: c’è diritto-dovere alla legittima difesa, c’è diritto-dovere a fermare l’aggressore! Ma guai se si pensasse di poter ristabilire la giustizia con atti di rappresaglia, atti obbedienti a un concetto primitivo di giustizia, molto più simile alla vendetta, che travalicano il principio della legittima difesa e del disarmo della mano del violento. Se si pensa di ristabilire la giustizia con la vendetta, rispondendo alla violenza con la violenza, operando un collegamento tra giustizia infranta e guerre necessarie per restaurarla, allora si percorre soltanto una strada mortifera, si innesca una spirale inarrestabile di violenza e di ritorsione.
Rispondere al terrorismo con una guerra significa andare oltre al diritto-dovere della difesa sia perché assieme ai colpevoli (quando addirittura non al loro posto!) vengono coinvolti popoli interi, uomini, donne e bambini innocenti, sia perché la guerra è una “avventura senza ritorno”, una matrice di odio che coinvolge anche le nuove generazioni. Certo, non basta dire no alla guerra: occorre rendere concretamente praticabili vie alternative che portino alla riparazione e alla difesa dei diritti violati, vie che percorrono il non facile sentiero del negoziato, della diplomazia, del giusto compromesso.
Tutto questo diventa possibile se si arriva a coniugare fra loro giustizia e perdono. Non si può ristabilire pienamente l’ordine infranto se non si crea lo spazio a una giustizia che inglobi in sé anche quella particolare forma di amore che è il perdono. Discorso difficile, questo, soprattutto quando ci si sente dalla parte delle vittime; eppure, se veramente si vuole tendere alla pace – e a una pace “duratura” – non si può pensare alla giustizia in termini antitetici al perdono. Ed è qui che il messaggio di Giovanni Paolo II per la Giornata mondiale della pace si fa eloquente e convincente. È un messaggio nato dal confronto con la Rivelazione – come afferma il papa stesso – e che Giovanni Paolo II diffonde con forza e autorevolezza a causa del dovere che egli avverte nello svolgere il suo ministero a servizio del Vangelo. Sì, è il Vangelo che esige che il principio “perdono” sia immanente nel principio “giustizia”! È la stessa Scrittura, già nell’Antico Testamento, che proclama l’unità di giustizia e misericordia, dunque di giustizia e perdono, addirittura nel Nome stesso di Dio rivelato a Mosè (cf. Es 34,6): è un’unità presente nella creazione stessa, perché la misericordia ha preceduto la creazione.
Dio è giusto, ma è nello stesso tempo misericordioso e compassionevole, dunque capace di perdonare, come ha narrato definitivamente di lui Gesù di Nazaret: il perdono è la suprema narrazione fatta da Gesù su Dio. Per questo ci ha insegnato a pregarlo: “Padre, perdona a noi i nostri peccati come noi li perdoniamo ai nostri debitori” (Lc 11,4), mentre lui stesso in croce ha pregato: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). I discepoli di Gesù devono essere sempre uomini e donne di misericordia e di perdono, chiamati ad amare i nemici, a pregare per i persecutori, a benedire e mai maledire (cf. Mt 5,44).
Ma questo perdono che la chiesa ha sempre predicato e ha sempre additato come inerente alla vita cristiana, deve diventare – è questo il messaggio del papa – non solo prassi personale nel cammino verso la santità ma anche etica e cultura, fino a profilarsi come “politica del perdono espresso in atteggiamenti sociali e istituti giuridici” in cui la giustizia è esercitata e riproposta. Una tale prassi del perdono deve quindi riguardare i cristiani tutti e la loropartecipazione alla vita della polis: sì. Il perdono si rende necessario a livello sociale, politico, nei rapporti tra le nazioni, le etnie, i gruppi… Non ci può essere un progetto di società futura contrassegnata dalla pace, dalla qualità della convivenza sociale e della solidarietà in vista di una vera communitas, senza immettere il perdono nel concetto e nella prassi della giustizia.
“Non c’è pace senza giustizia,
ma non c’è giustizia senza perdono!”
Ecco il messaggio che il papa stesso afferma essere annunciato a credenti e non credenti, a quanti hanno a cuore il bene della famiglia umana e della società. Certo, una prassi del perdono comporta a breve termine un’apparente perdita, forse anche una sconfitta, ma in realtà assicura un guadagno a lungo termine. La violenza è l’esatto opposto: opta per un guadagno a scadenza ravvicinata, ma prepara sul lungo termine una perdita reale e permanente. Il perdono non è una debolezza, anche perché chi lo concede e lo pratica deve essere munito di una grande forza spirituale, di una intensa vigilanza sulle proprie passioni, di una grande disciplina nei confronti della propria aggressività. Concedere e accettare il perdono è sempre stata opera di pochi, ma oggi può diventare prassi dei cristiani e di altri uomini che cercano vie di senso e desiderano la pace per la terra! Il principio “perdono” è per il cristiano giusto in sé, perché rifiuta di identificare il male con l’uomo che lo compie e, quindi, di cosificare l’uomo riducendolo al suo operare malvagio.
Proprio questo principio “perdono” deve aiutare al ripensamento del concetto di giustizia retributiva: molte situazioni di conflitto endemico, come in Medioriente, situazioni cariche di odio e di violenza, di azioni e reazioni mortifere, possono trovare una soluzione e un’apertura verso un radicale ristabilimento della giustizia solo attraverso un atto di perdono dei crimini commessi.
Giustizia e perdono congiunti aprono un futuro di riconciliazione e di pace: altre vie non esistono!
Enzo Bianchi