di Enzo Bianchi
Nell’annunciare la propria rinuncia all’esercizio del papato Benedetto XVI ha dichiarato, tra l’altro:
Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino (11 febbraio 2013).
Parole sulle quali è tornato il suo successore, Francesco, dicendo:
Papa Benedetto XVI ci ha dato questo grande esempio quando il Signore gli ha fatto capire, nella preghiera, quale era il passo che doveva compiere. Ha seguito, con grande senso di discernimento e coraggio, la sua coscienza, cioè la volontà di Dio che parlava al suo cuore” (Angelus, 30 giugno 2013).
Mai la coscienza era stata così evidenziata, nella sua funzione di ascolto della volontà di Dio e riguardo a decisioni di grandissima responsabilità, da parte del magistero. D’altra parte, Benedetto XVI era tornato più volte, già da cardinale, a meditare sul tema della coscienza, e così ci ha dato anche un chiaro esempio del suo esercizio pratico.
Nei giorni scorsi, poi, in una lettera di papa Francesco, abbiamo letto questa affermazione:
La questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire a essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire (Lettera a Eugenio Scalfari, 4 settembre 2013, apparsa su La Repubblica l’11 settembre 2013).
Queste parole hanno suscitato qua e là sorpresa, come se fossero una novità nel pensiero cristiano. In verità, almeno dal concilio Vaticano II non solo vengono affermate, ma sono state anche approfondite e la loro verità è stata ribadita in diverse occasioni anche dal magistero papale. Sì, è vero che ancora nel 1832 Gregorio XVI dichiarava: “Dalla corrottissima sorgente dell’indifferentismo scaturisce quell’assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza: errore velenosissimo” (Enciclica Mirari vos, 15 agosto 1832). Ma oggi solo una ridotta porzione, per altro scismatica, della chiesa cattolica continua a condannare la libertà di coscienza. Ha affermato con chiarezza il Vaticano II:
Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa’ questo, evita quest’altro … La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo (Gaudium et spes 16).
Cos’è dunque la coscienza? È la voce di Dio in ogni uomo creato a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26-27), capax boni et capax mali. Sicché per ogni persona il criterio ultimo e definitivo del proprio pensare, parlare e agire scaturisce dalla coscienza: dev’essere la coscienza a suggerire e a ispirare il sentimento e il comportamento umano.
Nell’ebraico biblico non c’è un termine corrispettivo del nostro “coscienza”. Nella traduzione latina delle Scritture il termine conscientia appare 35 volte, di cui solo 3 nell’Antico Testamento e 32 nel Nuovo Testamento (ben 19 in Paolo). I termini ebraici jada‘ (conoscere) e lev (cuore), nonché quello greco syneídesis, confluiscono con la loro ricchezza semantica nel nostro concetto di “coscienza”. In particolare, un’espressione fondamentale è “lev shomea‘”, “cuore che ascolta” (1Re 3,9), il cuore chiesto in dono a Dio da Salomone per poter discernere come svolgere il suo compito di re, il cuore capace di ascoltare la voce della realtà e della verità. L’Apostolo Paolo, dal canto suo, afferma: “Tutto ciò che non viene dalla coscienza è peccato” (Rm 14,23), parole riprese dall’assioma: “Chi agisce contro la propria coscienza merita la condanna”. E se la coscienza fosse erronea? Anche in questo caso sarebbe obbligante, perché essa è voce di Dio, eco della Parola di Dio che risuona nell’intimità pur sempre limitata e condizionata dell’uomo. La coscienza è pure un’eco dello Spirito santo (Parola di Dio e Spirito di Dio non sono mai separati, ma sempre presenti insieme e operanti in sinergia), un’eco però riflessa dalla libertà di cui ogni persona è dotata, libertà sempre condizionata dalla stessa condizione umana. Certo, per esercitare la coscienza occorre poter dire “io”, e quindi condizione preventiva è che ci sia uno spazio di libertà per questo “io”. Questo però nella consapevolezza che su ciascuno di noi pesano sempre vari condizionamenti: la storia sociale, familiare, personale, le strutture che ci plasmano, la cultura in cui siamo immersi e infine, nel linguaggio cristiano, le alterazioni dovute al peccato.
Una coscienza erronea non scusa in modo sistematico l’autore dell’azione malvagia, perché una coscienza morale deve essere costantemente esercitata, rischiarata, capace di ascolto e di confronto, disponibile a essere messa in questione. Questo impegno e questa fatica non permettono l’autosufficienza, l’evasione, la prevenzione. A mio avviso occorre tenere presente un principio decisivo: quando una persona continua a ripetere la stessa azione cattiva verso gli altri o verso di sé, poco per volta la sua coscienza morale si indebolisce, perché quando uno agisce non come pensa sia bene, poco a poco finisce per pensare come continua ad agire, anche se il suo agire è male. La coscienza in tal modo diventa erronea, e questa è responsabilità di chi lo permette.
Immanuel Kant ha così espresso “l’imperativo categorico”: “Agisci soltanto secondo quella massima”, ossia ciò che ispira nel profondo le tue azioni, “che, nel contempo, puoi volere che divenga una legge universale” (Fondazione della metafisica dei costumi, sezione II), cioè una legge valida per ogni essere umano posto nelle stesse condizioni di azione. Sì, la coscienza morale è una istanza che mi dice: “Diventa più conforme a ciò che tu sei, diventa un essere umano, svolgi il tuo mestiere di uomo o di donna, cioè fa’ il bene, ricerca ciò che umanizza ed evita il male” (Xavier Thévenot). È sul terreno della coscienza che credenti e non credenti, cristiani e non cristiani, insomma gli esseri umani tutti dovrebbero confrontarsi e ascoltarsi per camminare insieme. È la coscienza l’organo da esaltare per indicare la vera dignità di ogni uomo e di ogni donna: è questo organo che va assolutamente esercitato in modo esemplare, per lasciare alle nuove generazioni un abbozzo di criticità, di resistenza, per abilitarle alla scelta e alla decisione che esse stesse dovranno, con responsabilità e creatività, assumere ed esercitare.
Il cristiano non dimentichi dunque la realtà e la verità della coscienza, che deve sempre ascoltare anche per ascoltare Dio che in essa può parlare:
- quando legge le Scritture, sappia che è nel suo cuore e nella sua coscienza che esse possono diventare Parola indirizzata a lui, personalmente a lui;
- quando pensa, si eserciti nel discernimento interrogandosi a lungo e non cercando risposte facili e veloci. È infatti nella coscienza che, attraverso l’esercizio della critica e del confronto, si può aprire il cammino verso la verità;
- quando prega, cerchi innanzitutto di ascoltare più che di parlare a Dio (“Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”: 1Sam 3,9). La voce di Dio è “un silenzio sottile” (1Re 19,12), e se a volte Dio sembra muto è perché la sordità del credente diventa impedimento a un vero ascolto;
- quando deve scegliere e decidere, invochi lo Spirito santo che è “Spirito di sapienza e di discernimento” (Is 11,2), dono sempre rinnovato a chi lo invoca (cf. Lc 11,13). È lo Spirito che illumina e dà forza, coraggio, parresía.
Nel Sal 19,13 si prega: “Liberami dalle colpe nascoste, che io non vedo!”, parole che ci dicono la possibilità di una coscienza erronea, incapace di vedere e discernere i peccati, il male. Questa è una preghiera da fare con intensità e con insistenza, affinché non si spenga in noi “la scintilla dell’amore di Dio che è stata nascosta nel nostro intimo”, perché “l’amore di Dio non lo si può insegnare … ma è inscritto in noi come capacità della nostra natura razionale (lógos spermatikòs)” (Basilio di Cesarea, Regole diffuse 2,1; PG 31,908).
La coscienza non è dunque una voce che ci ricorda una legge “già fatta”, una legge da applicare in modo meccanico, ma è una voce che ci chiede creatività, regalità, profezia nel discernere situazioni nuove sempre illuminate dal principio fondamentale dell’amore. Per questo la coscienza è inviolabile, è un santuario, è il tesoro che ogni uomo ha ricevuto in dono da Dio, affinché fosse dotato di un luogo interiore per la sua relazione con Dio stesso. La coscienza è il luogo per pensare davanti a Dio, per pregare, per ascoltare la sua voce, per conoscerlo e per conoscersi meglio. È quel luogo in cui Dio è più intimo di quanto ognuno di noi possa esserlo a se stesso (“interior intimo meo”: Agostino, Confessioni III,6,11; PL 32,688).