di Bruno Segre*
Nel confrontarmi di nuovo, qui ad Asti a un anno di distanza, con il pensiero e la figura di Paolo De Benedetti, ritrovo il titolo, "Il geniale pontiere", che un anno fa avevo dato al mio contributo. Mi premeva, allora, sottolineare l'originalità, il carattere personalissimo dell'avventura spirituale di PDB a cavallo tra ebraismo e cristianesimo nei decenni successivi alla Dichiarazione conciliare Nostra Aetate: un'avventura che gli consentì di svolgere una funzione di splendido magistero nel creare occasioni, tutt'altro che facili, di dialogo tra ebrei e cristiani.
Avevo allora anche rilevato quanto il lavoro di Paolo si distinguesse da quello, pure tanto importante e apprezzabile, svolto da numerosi altri "pontieri", grazie al fatto che il "ponte" tra ebraismo e cristianesimo PDB ce l'aveva, per così dire, dentro di sé, già strutturato nel foro interiore, quasi come un elemento costitutivo del suo DNA.
Circa la natura di quel "ponte" vorrei tentare di fare maggiore chiarezza. PDB era uomo di frontiera, biblista mirabile per erudizione e creatività, persona di profonda spiritualità e di grande apertura intellettuale, uno dei massimi esperti contemporanei di ebraismo.
E a proposito della propria identità confessionale, della propria "religione", soleva parlare di "una presenza simultanea di categorie mentali e fedeltà ebraiche e alcune convinzioni cristiane, in combinazione instabile ma irrinunciabile".
Per quello che ho potuto capire della persona di Paolo e del suo orientamento spirituale, mi domando se abbiano ragione coloro che individuano nella sua "religione" l'espressione di una sorta di ebreo-cristianesimo riproposto nella contemporaneità e, quasi per incanto, reincarnato in lui, o se non sia più corretto considerare Paolo - proprio in virtù della sua manifesta e dichiarata duplice identità, ebraica e cristiana - l'autore di un recupero raffinatissimo e non retorico di quella "alterità immanente" che, in tutte le sfaccettature della loro esperienza, vissero in prima persona varie generazioni di marrani: un'esperienza che, oltre a offrire storicamente un contributo fondamentale alla nascita della modernità nella vicenda culturale dell'Occidente, si palesò quale struttura basilare della stessa condizione umana.
Chi di noi non ricorda l'affascinante capacità "marrana" di PDB di sviluppare argomentazioni che, senza sforzo apparente, egli trasformava da "altre ed esterne" rispetto alla cristianità (esterne in quanto ebraiche) in "altre e interne" alla cristianità?
Ricordo i discorsi stupefacenti e ricchi di fascino che PDB sapeva regalare allorché parlava di e con il suo Dio. Il Dio di cui e con cui Paolo parlava non presentava nessuna delle connotazioni comunemente attribuite alla divinità dal teismo della nostra tradizione filosofica. Non era un Dio onnipotente, non era onnisciente, non era immutabile. Era insomma un Dio "imperfetto", il suo.
Era un Dio geloso, un Dio che si pente, che si adira, che cambia nel corso del tempo, un Dio che ha le orecchie per ascoltarci, la bocca per darci le istruzioni e il naso per sentire gli odori e i profumi che si levano dai sacrifici; un Dio dotato di memoria, una memoria che, se talvolta si assopisce, deve essere risvegliata in un dialogo continuo tra creature e Creatore; un Dio tormentato da dubbi, dunque un Dio fragile che, secondo il midrash, chiede al suo popolo di consolarlo; un Dio che, come vedremo, fa anagrammi; un Dio che si nasconde e che quindi va cercato nelle piccole cose.
Alle prese con i testi delle Scritture, PDB si rivela un instancabileesploratore di terre incerte, un acuto investigatore di significati al confine. Ogni suo commento di un passo biblico o talmudico rappresenta la scoperta di qualche nuova inedita sfumatura.
Lontanissimo da qualsiasi accademia PDB è, per più d'un verso, un teologo senza volerlo, profondamente allergico alle lotte di potere e alle dispute, quasi sempre stucchevoli e senza esito, farcite di parole a effetto e di teorie stravaganti, alle quali con troppa frequenza si abbandonano i cultori di studi religiosi.
Per questo teologo involontario, che con inesausta creatività propone visuali spesso spiazzanti, Dio è sempre protagonista ma è sempre totalmente altro. Traggo da un libro che PDB pubblicò nel 2013, intitolato Se così si può dire. Variazioni sull'ebraismo vivente, il seguente passo: "Prima di creare il mondo Dio non era definibile e questo anche perché non c'era nessuno che lo potesse definire: l'unica definizione possibile, se qualcuno ci fosse stato per poterla estrinsecare, era 'Ajin', cioè 'Niente'.
Un giorno - diciamo 'giorno' anche se, in questo contesto, non ha senso perché il tempo non esiste ancora - Dio fa un anagramma e invece di 'Ajin' dice 'Ani', cioè 'Io'. Il pronunciare 'Io' da parte di Dio è quindi l'origine di tutto il creato, cioè del `Tu' dell'universo: l’‘o' di Dio crea il ‘Tu'.
Del resto che senso avrebbe un io senza il tu? Nessuno. E quindi qual è il tu? Il tu non è solo l'uomo, ma tutto il creato". C'è una parte del suo Dio, insomma, che PDB considera avvolta nel mistero, e questa parte non è la sua essenza bensì la sua volontà.
Ai nostri occhi Dio è Niente fintanto che non decide egli stesso, con un atto di volontà, di porre davanti a sé un tu. L'uomo, ovviamente, sta al vertice della relazione che Dio vuole instaurare con l'altro da sé. Però il tu di Dio non è soltanto l'uomo ma tutt'intera la creazione.
Che cosa ciò comporti nella visione complessiva di Paolo emerge con maggiore chiarezza in un capitolo del libro che si intitola "Chi è il mio prossimo?".
Qui PDB sviluppa una riflessione etica (in chiave ebraica) sul rapporto con lo straniero, ma allarga il discorso anche sui precetti in favore degli animali, aprendo così lo spazio a una proposta via via più radicale, ossia a una vera e propria "teologia degli esseri viventi". Per Dio tutti gli esseri viventi sono prossimo, sono tu, e in virtù di ciò essi diventano prossimo anche per l'uomo. "Questa è la tesi fondamentale", dichiara Paolo a suggello di tale sua visione, "la salvezza finale del mondo animale e anche del mondo vegetale. Se tutto ciò che ha avuto vita nel mondo ed è stato cancellato dalla morte non avesse più vita di nuovo, allora bisognerebbe concludere che la morte è più potente di Dio".
Un pensiero, questo, che nel libretto 15 animali pubblicato nel 2007 Paolo sintetizza così: "la vittoria di Dio sul nulla è condizionata proprio dal fatto che ogni carne (uomini, animali, mondo vegetale) salga infine a Lui. Perché se ciò non accadesse, se qualche parte dell'esistente non ritornasse, dopo la sua breve avventura terrena, all'esistenza, la morte vincerebbe, anzi la morte sarebbe Dio".
*in “Qol” del gennaio-febbraio-marzo 2024