La Repubblica - 07 Ottobre 2024
di Enzo Bianchi
La fragilità della condizione umana comporta anche la terribile esperienza della sofferenza fisica e psicologica. È una evenienza che fa paura, desta angoscia, ma che non è mai del tutto eliminabile dall’esistenza e certamente nasce nel corso della vita e può accentuarsi fino al trapasso del morire.
La sofferenza oggi ci appare come assurda, senza senso e significato: purtroppo per secoli la chiesa l’ha beatificata come strumento di redenzione, per l’espiazione delle proprie colpe, strumento voluto da Dio a purificazione e giusta pena per il male commesso. In questo modo si è attribuito a Dio un volto perverso e lo si è sfigurato, impedendogli di essere il Dio di Gesù Cristo che non può compiacersi della sofferenza dell’uomo.
Così, lo dobbiamo dire, manca ancora nel nostro paese “cattolico” una cultura del dolore che sappia accompagnare il malato nel faticoso cammino segnato dalla sofferenza. Dobbiamo con risolutezza affermare che il dolore non ha senso, va combattuto, che al dolore si deve opporre resistenza cercando di toglierlo a colui che soffre al punto da vedere minacciata la sua dignità umana. Fortunatamente, negli ultimi anni il bagaglio di conoscenze teoriche e operative che consentono di alleviare il dolore si è ampliato e diverse sono le cure a disposizione per il trattamento analgesico che dovrebbero essere facilmente acquisibili.
Togliere il dolore è un’azione di liberazione e di salvezza e i credenti in un Dio che è morto su una croce non dovrebbero dimenticarlo, evitando di considerare solo la dimensione fisica del dolore ma guardando a tutta la persona. È qui che occorre accettare che sia la volontà del paziente ad essere rispettata. Se è vero che possono essere ascoltati parenti e medici, va più di tutto prestato ascolto a chi soffre e sa misurare il suo grado di sopportazione della sofferenza. A volte c’è una resistenza egoistica dei parenti, una resistenza egoista all’uso degli analgesici in nome dell’adesione a una tradizione spirituale dolorista o alla volontà di restare in comunicazione vigilante con il parente, ma questo è mero egoismo, non cura amorevole del prossimo.
E sappiamo tutti che per alcuni si apre la prospettiva dell’eutanasia, una “dolce morte”, una morte provocata in anticipo spesso per pietà, per compassione. La chiesa cattolica rifiuta questa soluzione perché pensa che non ci siano vite non degne di essere vissute e giudica la vita sotto il segno della “sacralità”, mentre i laici insistono piuttosto sulla “qualità” della vita per giudicarla vivibile o meno.
Certamente, la convergenza tra le due posizioni non è facile, ma è possibile dare vita a un ethos civile che si nutra di ragionevolezza ispirata dall’esperienza concreta della cura dei morenti, di coloro che ricorrono alle cure palliative o scelgono la fine della vita in libertà e autonomia. Il diritto alla vita deriva da un dovere assoluto alla vita? E se la vita è donata all’essere umano questi nel concreto dell’alleanza con Dio non potrà più che mai pensare e credere che la morte è l’inizio della vita? Sono interrogativi che possono creare una dinamica all’interno delle posizioni cattoliche non certo per arrivare ad ammettere il suicidio, ma per comprenderlo come liberazione dal male e desiderio della vita vera. Per questo, vorrei che anche per le persone che scelgono l’eutanasia la chiesa, pur condannando l’atto, accettasse, se chiamata, di accompagnare il morente, di essergli vicino.
Ma questa sordità, questa inerzia dal legislatore italiano ad affrontare la questione del fine vita, non solo stupisce ma indigna, fortemente indigna.