Il viaggio di Anne Anne Le Maître attraverso l’esperienza del tacere come possibilità di comunicazione con l’altro
La Stampa - Tuttolibri - 26 ottobre 2024
di Enzo Bianchi
Un pellegrinaggio o una passeggiata nelle terre del silenzio: questo è ciò che ci offre Anne Le Maître con Un grande desiderio di silenzio, Edito da EDB, del gruppo Il Portico. Le Maître non parla del silenzio ricorrendo alla letteratura, non racconta i diversi silenzi positivi o negativi che conosciamo nel nostro mestiere di vivere, ma confessa come ha vissuto la ricerca e l’esperienza del silenzio. L’itinerario che l’autrice propone inizia con il rapporto tra ciascuno di noi e il silenzio: l’assordante rumore che ci circonda, il desiderio del silenzio come un sentimento che emerge dalla vita interiore, la relazione tra silenzio come digiuno di parole e il digiuno del corpo.
Questa analisi permette poi di comprendere e discernere il silenzio autentico e fecondo che non teme la solitudine, perché vive l’habitare secum, l’abitare con sé stessi. Certo il silenzio si impara e vivendo è una vera arte: è l’eloquenza del non detto, dello spazio bianco tra le parole scritte, è la negazione del mutismo perché può essere ascoltato. Ma Anne Le Maître non si ferma alla dimensione personale del silenzio e nell’ultima parte del libro mette il silenzio come necessità nella relazione con l’altro, con gli altri. Quel silenzio che rende possibile la comunicazione e apre vie di comunione, quel silenzio che non solo percepisce la presenza dell’altro e dell’Altro, ma permette di vedere l’invisibile.
Anne Le Maître sa che ci sono anche oggi uomini e donne che scelgono una vita nella quale il silenzio è ciò che dà forma al loro vivere quotidiano: sono soprattutto oranti che amano alzarsi prima dell’alba, quando il cielo e la terra sono immersi nel profondo silenzio per ascoltare la parola di Dio e cercare di custodirla nel cuore. Questo silenzio è lode a Dio, come dice il Salmo (cf. Sal 65,2), un canto che non si ode, eppure è il canto dell’universo.
Monaci e monache che lavorano, mangiano, bevono e riposano, ma dando sempre al silenzio un’egemonia che non è solo ritmo del tempo, ma è possibilità di vedere, ascoltare, sentire in pienezza tutto ciò che si incontra perché ogni creatura ha una voce (cf. 1Cor 14,10). Certo per i monaci ci sono luoghi di silenzio: la cella, il deserto, i boschi, il chiostro... ma ognuno di noi può trovare terre e luoghi di silenzio.
E poi ci sono altri, conclude Anne Le Maître, lavoratori solitari, camminatori e pellegrini taciturni, ricercatori curvi sul loro banco, artisti che generano arte nel silenzio. La pratica del silenzio è il loro modo di essere al mondo. “Che cosa saremmo senza questi oranti, questi meditanti, questi lavoratori solitari ... vere sentinelle?” si chiede Anne Le Maître e lo chiede a nome dei suoi lettori.
Ai nostri giorni siamo invasi dalle parole, dal rumore assordante, dalle chiacchiere, al punto che l’inquinamento sonoro può ormai essere annoverato tra i problemi ecologici. Nella società cacofonica in cui viviamo, inoltre, la parola è diventata quasi uno strumento obbligato per l’affermazione e la celebrazione di se stessi, anche a costo di assumere forme quanto mai aggressive e capaci di ferire: “parole come armi”, è stato giustamente detto... Si comprende dunque perché molti avvertano il bisogno del silenzio, vorrebbero cioè imparare a tacere per riscoprire la bellezza del silenzio e, insieme, la bellezza di forme di comunicazione non verbali. Tacere equivale a digiunare verbalmente e il silenzio è paragonabile al digiuno fisico, entrambi salutari quando lo esigono il corpo e la psiche, cioè l’intera persona umana.
Ma occorre chiedersi con franchezza: che cos’è il silenzio? La prima difficoltà consiste proprio nel parlarne, poiché il silenzio lo si comprende veramente solo quando se ne fa esperienza nella solitudine; inoltre è elementare ma essenziale ricordare che il silenzio non è una realtà uguale per tutti, e per la stessa persona può cambiare con le diverse età della vita.
Di più, quando si scandagliano le profondità del silenzio si scopre che il silenzio non è in primo luogo un’esperienza spirituale, anzi può persino esserle di impedimento. Il silenzio è un’esperienza umana e ogni persona conosce di fatto nel corso della sua vita diversi silenzi, silenzi al plurale, che in alcuni casi possono essere assunti in quanto giudicati come positivi e necessari, altre volte vengono respinti come negativi e mortiferi. Il silenzio non è dunque un bene in sé, né un bene assoluto, ma può trovare giustificazione e senso solo a certe condizioni, solo quando è vissuto con consapevolezza e orientato a un fine, a uno scopo.
A uno sguardo attento non sfugge il fatto che le valenze positive del silenzio possono essere comprese in pienezza solo se si ha il coraggio di guardare in faccia innanzitutto il suo lato negativo. Realtà costitutivamente ambigua, il silenzio può infatti essere senza vita, può assumere la forma di un mutismo che impedisce e rifiuta la comunicazione. Il rigetto della comunicazione umilia la parola e lo stesso silenzio, finisce per rinchiudere l’uomo in una sorta di prigione. Questa è una patologia che, non a caso, si manifesta quando l’equilibrio psichico è gravemente ferito; chi ha potuto incontrare l’abisso del mutismo in persone colpite dalla follia, sa che cosa significa questa forma di “no” alla comunicazione: è un rifiuto della vita!
Ma c’è anche un silenzio cattivo, malvagio, che si nutre di rabbia e di odio. Elias Canetti ha scritto giustamente in proposito: “Alcuni raggiungono la loro più grande malvagità nel silenzio”... Giudizio negativo sull’altro, disprezzo dell’altro, volontà – alimentata e “accudita” ogni giorno – di non avere di fronte o accanto a sé un altro, poiché la sua diversità ci infastidisce, ce lo rende nemico: non lo si saluta, non gli si indirizza una parola, lo si tratta come fosse già morto! Non serve neppure giungere all’ostilità manifesta, è ben più perversa questa ostilità sorda e muta. Non è forse questa realtà che talvolta abita i vissuti quotidiani delle nostre famiglie e delle nostre comunità?
Un’altra forma di silenzio negativo è quella dell’autoillusione: un silenzio custodito per preservare l’immagine che si ha di sé dal confronto con la realtà e con gli altri. Ciò si traduce poi in forme di vita “autistiche”, la cui raffigurazione più efficace è quella di un deserto popolato da fantasmi che finiscono per dominare ossessivamente il malcapitato... Davvero il silenzio può diventare un luogo di disperazione, una forma di angoscia: silenzio talora imposto dall’aguzzino alla sua vittima, talaltra scelto liberamente da chi si incammina su vie mortifere.
Con grande realismo occorre ammettere che queste forme di silenzio non ci sono estranee: l’importante è esserne consapevoli e nel contempo predisporsi a lottare per trasformarle in quel silenzio vitale da cui sgorgano una vita e una parola colma di senso.
Chi intraprende questa lotta giunge lentamente a discernere che esistono anche silenzi positivi, irrinunciabili. In primo luogo il silenzio rispettoso della parola dell’altro, ma poi anche il silenzio scelto nella consapevolezza che “c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare” (Qo 3,7).