La Repubblica - 04 Novembre 2024
di Enzo Bianchi
Leggendo i vangeli si resta stupiti del frequente ricorso di Gesù al genere letterario delle parabole: annunciando la buona notizia del regno di Dio veniente “Gesù parlava di molte cose in parabole”. Raccontava, offriva ai suoi interlocutori delle narrazioni di ciò che accade in questo mondo e nella vita quotidiana degli uomini e delle donne, facendo allusioni e velate rivelazioni. Non consegnava mai delle catechesi con formule codificate. Di Dio parlava poco e quando lo faceva usava immagini diverse da quelle preconfezionate trasmesse dai dottori della legge, i professionisti della religione, perché voleva “evangelizzare”, rendere Dio una “buona notizia”, liberandolo dalle immagini perverse create dagli uomini.
Le parole e le immagini che usava erano tutte ricavate dalla sua vita umanissima, mai straordinaria, mai volta a incantare o a sedurre. Sì, nelle parabole Gesù parlava di Dio senza nominarlo, un Dio che andava cercato e trovato dietro il comportamento di un padre buono, di un signore misericordioso, di un amico che non viene mai meno.
Potremmo dire che c’era in Gesù una parola non religiosa, una parola che rimandava all’esperienza umana: un fico che mette i germogli in primavera, il lievito che fa crescere la pasta, un padre che attende il figlio scappato di casa, un agricoltore che semina il grano, un pastore che perde una pecora... Racconti in cui Dio non appariva il protagonista, ma dai quali trasparivano le attese di una vita diversa, di un mondo diverso. E se Gesù veniva interrogato su Dio e sulla sua legge allora non forniva mai risposte dogmatiche né indicava ferree leggi morali: “Non parlava come gli esperti delle Scritture, ma come uno che ha autorevolezza!”.
Tra le cause dell’opposizione a Gesù da parte delle autorità religiose va annoverato anche questo suo linguaggio umanissimo che in bocca a un predicatore risultava sconcertante: non ripeteva quello che era stato detto e con la libertà dello Spirito profetico interpretava le Scritture. Così Gesù chiedeva alle folle che lo ascoltavano di ripensare l’idea e le immagini che avevano di Dio, di interrogarsi su ciò che veramente Dio vuole e non vivere secondo quello che chiedono i sacerdoti. Mai Gesù ricorreva al sovraumano, mai alla predicazione di un Dio onnipotente, vittorioso e che sa imporsi sugli esseri umani se questi non lo accolgono. Parlava di un Padre che chiamava Abinu, “Padre nostro” (perché noi siamo tutti fratelli), lo chiamava anche confidenzialmente Abba, “Papà”, un Dio che conosce solo l’onnipotenza dell’amore, destinato anche a chi non lo merita, e per questo un Dio che vuole salvare la vita di tutti, proprio tutti.
Per mostrare questo Gesù “si è perduto” tra i malfattori frequentando peccatori pubblici e prostitute o sedendo a tavola con loro, giudicato impuro perché non ossessionato dalla purità e dall’immunità. La sua carne fragile e mortale era parola umana, come la carne di ciascuno di noi è carne terrestre...
Anche oggi, in un tempo che molti definiscono post-teistico, non ci dovremmo preoccupare di nominare troppo Dio. Dio non è riconosciuto quando è sulle labbra degli uomini religiosi, né quando è contemplato da molti che si definiscono teologi, ma quando è cercato senza essere posseduto, quando si fa la sua volontà senza dirlo e pubblicizzarlo. L’umanissimo Gesù è sufficiente per conoscere Dio.