di Paolo Pileri*
L’Italia è tormentata dal mal tempo o da inadeguata agenda politica? O da entrambe?
Intanto sgombriamo il campo dal mal tempo perché quel che stiamo vedendo oggi e che sta allagando città e territori non è mal tempo ma il tempo che ci siamo cuciti addosso con il nostro impegno a fare due cose precise: guastare il clima in mille modi e rendere il territorio sempre più fragile in caso di piogge, alluvioni, frane, colate fangose, siccità, etc. Ricordiamo che attraverso una superficie impermeabilizzata l’acqua non passa. Un’evidenza che, ahinoi, ancora sfugge a chi governa il territorio. E allora ricordiamoglielo: asfaltare qualsiasi suolo libero equivale ad aumentare di sei volte l’acqua che rimane in superficie e moltiplica i costi per gestirla e soprattutto i danni in caso di alluvione.
La prova che tutto ciò non è chiaro ci arriva dai dati sul consumo di suolo. In soli sedici anni, in Italia, sono stati sigillati/cementificati/asfaltati ulteriori 121.650 ettari. Un numero pazzesco: è come aver aggiunto circa 11,5 città della grandezza di Milano a un’Italia già piegata dalla super cementificazione. Più urbanizzazione abbiamo e più isole di calore generiamo, più traffico, più energia consumata, più gas climalteranti lanciati in atmosfera, più acqua in superficie e più clima che cambia per sempre. Queste 11,5 nuove Milano sparse per la penisola (il 44% nelle sole otto regioni del nord) sono il frutto di una pianificazione urbanistica sregolata e incurante degli equilibri ecologici, che non funziona più o addirittura non esiste più. Ammalorata da leggi urbanistiche incapaci di contenere e fermare il consumo di suolo. Ancora convinta che davanti a problemi complessi e sovra-territoriali debbano essere i singoli comuni, frammentati e incomunicanti tra loro, a decidere in piena autonomia se urbanizzare o non urbanizzare. Un’urbanistica che a parole e da anni annuncia la sostenibilità, ma nella concretezza della quotidianità produce l’esatto contrario, ignorando le asimmetrie tra pressioni private a urbanizzare e strumenti pubblici spuntati per fronteggiarle; ignorando la golosità della rendita per i privati e degli oneri di urbanizzazione per il pubblico, ma soprattutto ignorando cosa è l’ecologia dei suoli e come soccombe sotto i colpi delle trasformazioni del territorio. I vari protagonisti della pianificazione urbanistica, politici in primis, non hanno ancora capito quanto impattano le loro decisioni urbanistiche su clima e tenuta del territorio. Non lo capiscono perché, innanzitutto, gli sfugge il ruolo del suolo. Per loro è una superficie da occupare, un vuoto da riempire. Non vogliono accettare che per fronteggiare il disfacimento del territorio a cui stiamo assistendo occorre fermare subito, e non solo rallentare, l’urbanizzazione. Solo fermandola, ci si può mettere a scrivere un’agenda pubblica per una seria transizione ecologica. Stop al consumo di suolo e difesa del suolo devono andare a braccetto perché continuare a cementificare finisce per non generare gli effetti desiderati delle azioni di difesa del suolo. La qual cosa non vale solo per l’urbanizzazione, ma anche per l’agricoltura che in questi ultimi decenni è divenuta un’attività di industria pesante: compatta i terreni aggravando la impermeabilità generale; elimina le coperture vegetali permanenti; inquina i suoli con pesticidi, plastiche, funghicidi; abbandona la montagna etc.
La prova della trascuratezza della difesa del suolo ci arriva osservando i dati sulla finanza locale dei comuni italiani (ISTAT, https://www.istat.it/it/archivio/289008): nel 2021 hanno speso circa 68,6 milioni di euro (somma dei pagamenti in conto competenza e in conto residui ovvero i più noti pagamenti di cassa, quelli effettivamente spesi). 68,6 milioni di euro sono tanti o sono pochi? Sono una risposta adeguata per difendere il territorio dai rischi del dissesto idrogeologico e dalle mutate condizioni meteo? Difficile dare una risposta nel merito, ma possiamo aiutarci con alcune proporzioni. Mediamente, per ogni euro speso per la difesa del suolo in Italia se ne sono spesi 4,6 per rimediare ai dissesti (2,95 per la protezione civile; 1,65 per interventi a seguito di calamità naturali). Per chiarire: la spesa per prevenire i problemi è circa cinque volte inferiore a quella per rimediare. Se andiamo a confrontare la spesa per difesa del suolo con le altre, le cose vanno pure peggio. Per ogni euro speso per la difesa del suolo ne sono stati spesi 13 per ‘elezioni e consultazioni popolari & anagrafe e stato civile’; 6 per ‘sviluppo e valorizzazione del turismo’ e 43 per ‘viabilità e infrastrutture stradali’. Sebbene non tutte le competenze in materia di difesa del suolo spettino ai comuni (ma la medesima cosa si potrebbe dire per la viabilità o per il turismo o per le elezioni), il quadro che ne esce è quello di una spesa pubblica locale assolutamente inadeguata per la difesa del suolo. Ecco una nuova chiave che ci aiuta a interpretare perché il nostro Paese si è trovato in ginocchio con le alluvioni e le frane degli ultimi due anni. Non è responsabilità del clima (che abbiamo) cambiato, ma di una pianificazione che non solo è stata a guardare, ma ha proseguito nel proprio cammino cementifero.
Se andiamo a vedere meglio questi rapporti in funzione della dimensione dei comuni, le cose finiscono pure per peggiorare. I comuni con meno di 5.000 abitanti hanno speso 8,3 volte di più per rimediare alle calamità che per prevenirle, quindi quasi il doppio della media dei comuni. Attenzione perché i piccoli comuni sono il 70% dei comuni italiani e occupano spesso aree idrogeologicamente delicate. Inoltre, sono quelli tecnicamente più sguarniti avendo uffici comunali a mezzo tempo, sempre sottodotati e dove faticano ad arrivare le briciole di aggiornamento professionale offerte ai tecnici pubblici. Dico briciole per essere generoso, visto che sappiamo bene che in questo Paese non è stato investito praticamente nulla per la formazione di una nuova mentalità, ecologica e consapevole del cambiamento climatico, dei tecnici locali e zero risorse per la formazione degli amministratori locali (che peraltro non chiedono di imparare qualcosa). Più o meno la stessa proporzione di spesa la ritroviamo nei comuni tra i 5.000 e i 10.000 abitanti, mentre scende a 6 per quelli tra i 10.000 e i 20.000, poi a 3,8 per quelli tra 20.000 e 60.000 e a 2,2 per tutti gli altri. Rimane il fatto che la spesa per la prevenzione è sempre inferiore a quella per i rimedi e questi, spesso, sono improvvisati o provvisori. Sicuramente piacciono a chi riesce ad aggiudicarseli usando le scorciatoie dell’urgenza che aggirano le procedure di bando.
In conclusione, la lettura di questi dati ci mostra un’altra chiave interpretativa per capire meglio le responsabilità dietro le alluvioni di Emilia Romagna, Marche, Liguria, Toscana, Lombardia, Veneto, Campania e Sicilia e quelle che verranno, se verranno. Siamo stretti in una morsa terribile: insostenibile e galoppante consumo di suolo da un lato e persistente inadeguatezza della spesa pubblica locale per la difesa del suolo, dall’altro. In buona sostanza potremmo dire che il governo del territorio è completamente saltato e davanti al clima cambiato è come un re nudo che tiene in mano un’agenda vecchia, convinto di essere ancora nel ‘900. Con tutte queste sproporzioni e questa ostinata cementificazione non si va da nessuna parte. E non si dica che il PNRR sta cambiando musica perché sappiamo che non è così. Non siamo vittime del maltempo, ma ancora una volta di malgoverno del territorio.
* Dal sito volerelaluna del 05.11.2024