di Umberto Galimberti*
Paolo Cognetti, 46 anni, vincitore del Premio Strega nel 2017 con Le otto montagne, e sugli schermi cinematografici in queste festività con Fiore mio, ieri ha rilasciato a Repubblica una lunga intervista che prende le mosse dalle sue dimissioni dal reparto psichiatrico dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano, dove dice che: “Le malattie nervose non devono essere una vergogna da nascondere, perché la risalita incomincia proprio accettando chi realmente si è”.
E qui abbiamo un primo messaggio davvero importante, perché sia la malattia, soprattutto quella mentale, sia la povertà tendono a nascondersi per vergogna, per pudore, o semplicemente per evitare quel diradamento delle relazioni sociali che spesso si verifica per chi è caduto in povertà o per chi è precipitato nell’abisso della depressione. Ma più della povertà, che emerge solo come statistica, più della malattia fisica che solo oggi comincia ad essere comunicata e raccontata, è la follia ad essere relegata nella solitudine di chi la soffre, perché la sua vista inquieta, e così passa inosservata a colpi di rimozione percettiva, visiva, linguistica. Paolo Cognetti nella sua intervista rompe questo tabù e, da scrittore qual è, affonda il suo sguardo in quel disarticolarsi del linguaggio dove, abolito ogni senso, tutto cade nell’insignificanza, per cui «il bosco è solo un bosco, l’albero è solo un albero» che più non rinviano a un’ispirazione folgorante, a una narrazione seduttiva, a un’ulteriorità di senso, ma solo alla disperazione del linguaggio che più non trova le parole per dirsi. Terrorizzato dal silenzio della depressione che soffoca quel grido taciuto, anche perché nessuno è disposto ad ascoltarlo, il depresso non riesce in alcun modo a far conoscere la condizione in cui viene a trovarsi l’uomo quando precipita in quel deserto caratterizzato dall’insignificanza di tutte le cose, dove il passato vive solo di ricordi che non hanno nulla a cui riaccordarsi, il presente annuncia solo creatività estinte sul loro nascere, mentre il futuro mostra solo quell’altra faccia della verità, la più minacciosa, che è l’insignificanza dell’esistere.
È a questo punto che Paolo Cognetti non crede più, lui narratore, nella parola che danza sull’insensatezza della vita, e tantomeno che sia reperibile una formazione di senso laggiù ai confini del deserto. Ma proprio quando all’orizzonte si profila la tentazione del gesto estremo, Paolo Cognetti accetta la decisione medica del trattamento sanitario obbligatorio. Sappiamo che la depressione, non si sa se per effetto farmacologico o per la sottostante natura bipolare del depresso, può capovolgersi nel suo contrario e tradursi in comportamenti maniacali, dove passato e futuro si cancellano nell’euforia dell’assoluto presente, senza memoria e senza progetto cancellati nell’istantaneità del momento, a sua volta caratterizzato da una tonalità gioiosa in cui si celebra la vittoria delle pulsioni sulle inibizioni e ogni sorta di difficoltà, sia logica sia reale, è cancellata da un esaltato ottimismo.
«Nel suo ottimismo – scrive il più grande psicopatologo del Novecento Karl Jaspers – le cose, il mondo, l’avvenire appaiono nella luce più rosea. Tutto è splendido, tutto raggiunge la massima felicità possibile» e le pulsioni trovano la loro espressione senza limiti di sorta.
Infatti, scrive Cognetti: «Nelle fasi maniacali si può perdere il senso del pudore o quello del denaro. Io ho inviato ad amici immagini di me nudo e ho regalato in giro un sacco di soldi».
Il maniaco, infatti, vive la libertà di una spensieratezza sfrenata, caratterizzata da un’assoluta mancanza di riguardo nei confronti degli altri, non perché li disprezza, ma perché nella sua iperattività esuberante fino all’esaltazione non si sente oppresso da alcuna problematica.
Non dobbiamo considerare la follia come una prerogativa dei folli, sigillata nell’incoerenza dei loro sentimenti e nell’insensatezza dei loro pensieri. La follia ci abita: e ogni notte fa la sua comparsa nel teatro dei sogni, dove non funziona il principio di non contraddizione, dove spesso l’effetto produce la causa, dove lo spazio e il tempo perdono la loro ordinata dimensione e successione, perché un sogno può iniziare a New York e concludersi nell’Impero romano.
È la follia, ma non è la follia dei poeti protetti da quelle divinità, le Muse, che dettano quel che il poeta deve dire. Così almeno ci riferisce Pindaroche si definiva “profeta”, uno che dava voce alle parole del dio che, in condizioni di “entusiasmo” – parola greca che significa che dentro (en)di te c’è un dio (theós)– ti ispira se appena scendi nella tua follia, da cui dipende ogni forma di creatività.
Ma scendere nella propria follia può anche essere pericoloso, e per questo Heidegger scrive: «I poeti sono i più arrischianti», e Jaspers dal canto suo: «Ogni volta che ammiriamo un’opera d’arte ci comportiamo come quando ammiriamo una perla, dimenticando che la perla è la malattia della conchiglia.
E senza la schizofrenia dell’autore, quell’opera non sarebbe mai nata». Paolo Cognetti ha sperimentato sia l’arte narrativa sia la follia, confermando quello che lo psichiatra Eugenio Borgna diceva: «La follia è la sorella sfortunata delle poesia». Di questa inseparabile connessione Paolo Cognetti ne è perfettamente consapevole là dove dice nell’intervista rilasciata a Repubblica: «Depressione e disagio psichico sono un fiume carsico in piena, negato e ignorato per accreditare l’idillio di una società felice. Siamo obbligati ad apparire sani, forti e colmi di gioia. Io però sono uno scrittore: per me è tempo di alzare il velo che nasconde il dolore».
Cognetti viveva buona parte dell’anno in montagna, ma poi dice che quando ha incominciato a scrivere, l’umanità della montagna lo ha respinto. Non era più come gli altri e d’altra parte «da soli non si vive». E allora bene le cure mediche, ma non bastano perché: «Sei vivo, ma è come se fossi morto». A curare e a guarire è quell’altra follia che Platone nel Fedro chiamava Amore, a proposito del quale diceva: «I doni più grandi ci vengono dalla follia, naturalmente data per dono divino». E, dopo aver illustrato la follia poetica, Platone ci introduce nella «follia più eccelsa, la più divina, la follia di Amore» che Cognetti conosce bene, altrimenti non direbbe: «Non si deve mai rinunciare all’amore, che non ritorna». Custodiamo questo mistero che intreccia creatività, follia e amore.
Il loro nesso è indissolubile.
La malattia psichica resta relegata nell’isolamento di chi la soffre perché la sua vista inquieta
Per questo è importante raccontarla
* in “la Repubblica” del 20 dicembre 2024