Il Blog di Enzo Bianchi

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​Fondatore della comunità di Bose

Raccontare il dolore, la cura che serve

13/05/2025 00:00

AA.VV.

Testi di amici 2025,

Raccontare il dolore, la cura che serve

di Monica Perosino

di Monica Perosino*

Tra i molti paradossi e le innumerevoli contraddizioni in cui la guerra costringe gli esseri umani ce n'è uno, in particolare, sorprendente. Un effetto secondario che solo chi ha il privilegio di averla vissuta, e di essere sopravvissuto, può sperimentare: le parole, anche quelle fruste, retoriche e abusate, ritrovano l'originaria purezza, tornano a scintillare. Proprio nel mezzo dell'orrore, parole come "libertà", "odio", "paura", "amore", "vita", "morte", ritrovano la corrispondenza necessaria tra reale e pensiero. Il primo discorso ufficiale ai media mondiali di Papa Leone XIV è stato potente e preciso – "agostiniano" direbbero i vaticanisti –, ci ha spinto a riflettere sul potere delle parole e sulla responsabilità che ciascuno di noi ha quando le usa. In un mondo segnato dai conflitti, «disarmiamo le parole e contribuiremo a disarmare la Terra», dice il Papa. Ma chiede anche di non cedere alla mediocrità, di rimanere dentro il tempo e dentro la Storia, di purificare i discorsi da pregiudizio, rancore, fanatismo e odio. Non dice di non parlare di guerra, di violenza e male, anzi, ma di farlo con precisione, con l'ascolto, con la condivisione e con il coraggio e, soprattutto, con autenticità. In modo da far coincidere la realtà alle parole e così contribuire a costruire una società più giusta, qualsiasi cosa significhi "giustizia".
 

Comunicare, parlare, scrivere sono un atto etico. Come etico e responsabile deve essere l'uso di strumenti in grado di ferire, uccidere ma anche avvicinare alla pace e all'amore. Come quando si riesce a raccontare il dolore degli altri, sentendolo, facendocene carico come fosse il nostro.
 

Chiunque abbia vissuto la violenza di un conflitto armato conosce il disagio di vedere la guerra raccontata come un videogioco, o di ascoltare un commentatore in tv che esalta le prodezze di un calciatore mentre «sfonda le linee nemiche». Abitare le nostre parole, farne esperienza, è l'unico antidoto all'inautenticità.
 

La parola ci rende umani, anzi, è la caratteristica nucleare che ci rende essere umani, dice Chomsky. Eppure, siccome la lingua ce l'abbiamo da sempre, da quando nasciamo, finisce che non ci pensiamo più, non ce ne occupiamo più, la trascuriamo. Così il nostro Occidente fortunatamente assopito da ottant'anni di pace e di conflitti visti solo in tv, tradisce le parole di cui non riconosce più il potere, ne fraintende il peso. Ma le parole e il pensiero sono vasi comunicanti, per pensare ci vogliono le parole, ché puoi pensare limitatamente ai termini che conosci. «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo», diceva il filosofo Wittgenstein, inchiodando la nostra capacità di comprendere la realtà alle parole che conosciamo. Nessuno, naturalmente, crede che basti un linguaggio buono per costruire un mondo buono, ma se è vero che le parole "abitano" non solo le cose, ma anche il soggetto stesso quando le pronuncia, l'appello di Leone XIV arriva ben oltre l'invito a scegliere con consapevolezza «la strada di una comunicazione di pace», mentre sembra richiamare il concetto filosofico di "logos", il discorso razionale, contrapposto al "mythos" che può alimentare conflitti. Non ci sono parole cattive, o brutte, solo parole usate in modo orribile e impreciso. Il nostro dovere e fare di tutto affinché ritrovino la pace.

* in “La Stampa” del 13 maggio 2025