La Repubblica - 9 giugno 2014
Non sappiamo se a suo tempo il gesuita p. Bergoglio abbia letto il libro del suo confratello Jean Daniélou, L’oraison, problème politique. Era il 1965, e il Vaticano II aveva innescato una riflessione profonda sull’incidenza della presenza cristiana nella storia e sull’efficacia non solo dell’agire dei cristiani nella società contemporanea, ma anche del loro porsi davanti a Dio portando con sé nella preghiera i loro fratelli e le loro sorelle in umanità.
Di certo l’evento voluto da papa Francesco e vissuto ieri nei giardini vaticani non è il primo gesto che il vescovo di Roma pone per affermare che là dove una soluzione non pare trovare sbocchi umani, sociali o politici, la preghiera può immettere nella storia energie vitali di pace, giustizia, solidarietà. Si pensi alla prima uscita di papa Francesco da Roma e al momento forte di preghiera e di invocazione di perdono compiuto a Lampedusa.
Forse alcuni possono fraintendere gesti come questi, considerarli un surrogato della politica e dei suoi fallimenti; altri possono essere infastiditi dall’insistenza con cui i cristiani ricorrono alla preghiera ogniqualvolta infuria una guerra, si commettono ingiustizie, si fomentano ostilità. Riti inutili? Anestetici per una coscienza lacerata? No, proprio la preghiera è eloquenza della fede dei cristiani: se non ci fosse la preghiera – questo rivolgersi a Dio dandogli del tu – non ci sarebbe neanche la fede, che è fiducia riposta in Dio, adesione al Signore vivente.
Per il cristiano è proprio la preghiera l’azione per eccellenza, la prassi efficace nella storia. Quando si vivono stagioni difficili, situazioni di stallo drammatico, momenti in cui ogni sbocco sembra precluso, ciascuno misura innanzitutto la propria impotenza, l’incapacità a capire con chiarezza le ragioni stesse di un conflitto… Ma è proprio nella consapevolezza dell’impotenza che il cristiano si rivolge al Signore: non per invocare soluzioni magiche, non per sentirsi sottratto all’impegno e alla responsabilità, non per essere esentato dalla storia, ma perché la sua fede nel Signore della storia lo porta a intercedere.
Ora, “intercedere” significa “fare un passo tra”, muoversi tra due realtà, immettere in una situazione negativa elementi in grado di mutarla: significa diventare solidale con chi è nel bisogno, recando dall’interno l’aiuto possibile, significa soprattutto compiere la volontà del Signore che è sempre volontà di perdono, di pace, di vita piena. Gesù ha detto: “Se voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito santo a coloro che glielo chiedono!” (Luca 11,13). Ecco la “cosa buona” che i cristiani chiedono nella preghiera: lo Spirito santo che agisce nel cuore e nelle menti degli uomini e vi immette pensieri e progetti di pace. Ecco cosa i cristiani sono sicuri di ottenere, perché Gesù lo ha promesso…
Allora questa preghiera diviene efficace nella storia, una preghiera capace di raccogliere il grido delle vittime, le urla che invocano giustizia. Questa preghiera si fa voce di tutto il sangue innocente versato, da quello di Abele il giusto fino a quello dei poveri, delle vittime di una violenza e di un conflitto dal quale non possono uscire vincitori ma solo sconfitti: uomini e donne sfigurati per generazioni dalla brutalità della violenza dell’essere umano sul proprio simile.
La preghiera è una componente essenziale della storia perché il grido dei poveri e delle vittime che sale a Dio chiedendo giustizia e pace non va perduto, come ha detto Gesù: “Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti che gridano a lui giorno e notte?” (Luca 18,7). Chi pensa che la preghiera sia un’evasione dalla storia, un’esenzione a basso prezzo, mostra di non conoscere l’attesa, la speranza e vive il succedersi degli eventi come un eterno continuum in cui regna il fatalismo e la lettura cinica della realtà.
Quando il successore di Pietro chiede alla chiesa di pregare, le chiede di essere conseguente più che mai con la propria fede, di stare nella storia con le armi che le sono proprie, le armi salvifiche dell’intercessione, le chiede di stare nel mondo senza essere mondana, di assumere un comportamento ispirato dall’ascolto della parola di Dio. E quando il vescovo di Roma osa chiedere a uomini politici di altre fedi di unirsi a lui e agli altri cristiani per innalzare preghiere all’unico Dio e per invocarne il perdono, non compie un passo diplomatico, ma si pone come fratello accanto a loro, per essere assieme a loro intercessori presso Dio e, da quella posizione così ardua, insieme offrire ai contendenti e alle vittime un segno di speranza, di coraggio e di fiducia nella capacità umane di rifuggire il male e scegliere il bene comune.
Non sappiamo che frutti porterà la preghiera di ieri sera a Roma, non sappiamo se l’ulivo piantato crescerà fino a portare frutto e a donare luce e balsamo a chi vi anela. Sappiamo però, come ha ricordato ieri papa Francesco, che la parola che ci fa incontrare è “fratello”, che lo stile della nostra vita deve diventare “pace” e che a questa pace è la preghiera che ci conduce. Sì, anche quando le apparenze paiono affermare il contrario, la preghiera – dialogo con il Dio che salva – salverà il mondo.
ENZO BIANCHI
Pubblicato su: La Repubblica